Scritto sui banchi

24 ottobre 2009

metti un supercervello in classe. a caserta





La notizia della settimana: “Un ragazzo casertano nel club mondiale dei “super cervelli”.
“Al liceo era il classico alunno di cui il professore dice: “è molto intelligente ma svogliato, potrebbe fare di più”. Stop. Fermiamoci all’incpit di questo articolo sul Corriere del Mezzogiorno del 22 ottobre. C’è un alunno svogliato, di cui si riconosce l’intelligenza che dopo il liceo ha modo finalmente di trovare se stesso.
E di divenire un super cervello. Quante volte è accaduto nella storia della scuola? Tantissime. La scuola, vista dai super cervelli è una splendida occasione mancata, un luogo dove esprimersi è una sofferenza. Dove si è costretti alla medietà. Questo è il destino di molti alunni.
E, per quanto ho modo di vedere, è anche il destino di molti insegnanti, costretti essi stessi a non esprimersi per come vorrebbero, per come potrebbero. Capita spesso, più di quanto ci si aspetti.
Anni di studio, di passioni, di relazioni forti e intense con i libri, che poi si riducono ad una manciata di minuti di lezione, interrotte da bidelli che entrano con una circolare, alunni con le loro battutine sagaci, sguardi persi nel vuoto. Il professore sta “traducendo” ore di studio di Leopardi in una stringata spiegazione sull’Infinito. Traduce, ma al contempo tradisce il proprio sapere. Magari ha voglia di fare una lezione intensa, più complessa, ricca di rimandi testuali, invece…
Invece è proprio questa la natura dell’insegnamento: imparare a saper porgere. Quel sapere,piccolo grande o immenso che ciascun insegnante ha, deve essere ritagliato su misura della classe. Come le figurine dei vestitini che si posano sulle bambole di carta. Insegnare significa far crescere, mica travasare contenuti. Ma è vero anche che l’insegnante migliore sa far crescere meglio gli alunni. Come i bravi giardinieri che riescono sempre a far prendere le piante, ad indovinare le posizioni giuste, la qualità del terreno, la giusta esposizione luce e ombra, l’acqua di cui necessitano. Altro che figurine di vestiti di carta. Insegnare ha a che fare con la vita. Lo sappiamo, solo che raramente ci fermiamo a pensarci su.
Sin qui gli insegnanti. Che dalla cattedra guardano gli alunni. E vedono alcuni bravissimi, altri meno bravi, altri che proprio non capisci che ci fanno lì a pochi metri da te. Però bastano tre anni di carriera, massimo cinque, per sapere che il percorso che va dai banchi al futuro non è affatto lineare. Com’è quel detto? “Per quanto ti svegli presto, il destino si è alzato sempre un’ora prima di te”. Basta una delusione amorosa e la studentessa modello finito il liceo si perde e molla tutto, il ragazzino svogliato trova gli amici giusti all’università e procede come un razzo. Fin qui la fatalità. Poi c’è quell’alchimia che si crea tra noi e il mondo che gira intorno. Ci sono studenti che seguiti giorno dopo giorno rendono bene ma lasciati a se stessi, buttati in un’aula da cento persone, non sono capaci di organizzarsi, di gestire i propri impegni, gli mancano gli apprezzamenti quotidiani e non fanno neanche un esame. E altri che a lavoro si rivelano più capaci che in classe. In mezzo c’è la fitta schiera dei medi, i sei più, sei e mezzo, mai brillanti ma mai scadenti che procedono diritti per la loro strada e vanno lontano. Non più lontano degli altri, ma comunque arrivano dove avevano deciso di arrivare.
Davvero troppo complesso, il rapporto tra presente scolastico e futuro nella vita. Di certo c’è che la realtà in classe va vissuta giorno dopo giorno. L’insegnante è spesso fallace nel formulare i giudizi. Ha bisogno delle performance: deve riempire la casellina del registro con un numero. Non gliene importa un fico secco se i manuali di psicologia dicono che l’ozio è produttivo. Un alunno distratto crea panico. Bisogna chiamare i genitori, scrivere una nota, due, tre. Bisogna impegnarsi di più. Soprattutto se si ha l’intelligenza e si è svogliati. E soprattutto niente distrazione. Niente fantasticheria, niente fughe nel mondo della fantasia.
Un giorno, in un istituto cittadino , può essere successo o può ancora succedere qualcosa di simile:
“Dovete studiare Leopardi, intima la prof di italiano. Paragrafo 3 del Capitolo 2. Leopardi e i piaceri dell’infinito. Sottolineate: l’immaginazione è la più grande delle facoltà umane. Dalla immaginazione nasce la poesia. Leopardi in questo passo dello Zibaldone ci sta conducendo nel cuore della creazione artistica… Avete capito?”. Un alunno nel frattempo guarda fuori dalla finestra. “Concentrati. Dico a te al terzo banco! Sempre con la testa tra le nuvole. Noi qui stiamo lavorando”. Lo studente sembra atterrare in classe. La prof gli intima di prendere il quaderno: “Scrivi: Per il Leopardi l’immaginazione è la prima fonte della felicità umana”. Il ragazzo, dopo un tempo che alla prof sembra interminabile, prende il quaderno e scrive la frase del poeta: “L’immaginazione è la prima fonte della felicità umana”. La sta rileggendo, mal a prof è esasperata: “Lunedì accompagnato dai genitori” dice con voce stridula. Cos’altro può fare? I(l lunedì successivo lo studente non si presenta, e nemmeno i suoi genitori. L’avevano accompagnato ad una gara di supercervelloni e la vince. Ma tutto questo la prof lo leggerà molti anni dopo sul giornale).

05 settembre 2009

primi giorni di scuola (per gli amanti della didattica)

Non lo so che gli è preso quest’anno. A tutti quanti. Certo i primi momenti sono sempre belli. I sorrisi, l’abbronzatura appena sbiadita, i racconti delle vacanze – “il mare a Baia Domizia non si poteva guardare proprio”, “mi sono portata pure mia cognata”, “al valtur i bambini non pagano” - i commenti politici mescolati al gossip di corridoio. il primo settembre, è un vociare indistinto di prof che si salutano, si baciano, si schivano. Poi, appena varcata la soglia delle aule dove si svolgono le riunioni, puntuale come sempre, scocca la domanda di rito: “a che ora finiamo?”
Ma se non abbiamo ancora iniziato! C’è l’appello da fare, i ritardatari da invidiare, il registro dei verbali da aprire, il saluto del preside.
E quando finalmente il collegio dei docenti prende la sua strada, si ripiomba nei problemi di sempre: l’orario delle lezioni, la giornata libera di sabato o di mercoledì, le assegnazioni delle classi. Tutti a difendere il proprio territorio e il gruzzoletto di privilegi. I ruoli e le funzioni per il nuovo anno: “io non voglio fare niente”, “due quinte, ti rendi conto? In due sedi diverse”, “perché gli esami di idoneità li devo fare sempre io?”. Domande che mulinellano nell’aria ancora estiva, mentre la macchina organizzativa procede con l’andamento di un panzer.
Qualcuno al microfono richiama la necessità di mettersi a servizio della scuola. Anzi, il primo giorno a questo è intitolato: alla presa di servizio.
Ma nessuno, ora, sembra crederci. Abbiamo trascorso l’estate godendo di una certa libertà, mica facile tornare nei ranghi della convivenza, accettare l’idea di poter rinunciare a qualcosa per gli altri. Siano essi alunni e meno che mai colleghi.
Per trovare un po’ di consociativismo (può andare bene questa parola?), di solidarietà, bisogna non averlo il lavoro, andare sui tetti dove si sono issati quelli che ancora non sanno se e dove insegneranno , girare per le strade dove monta la protesta contro la Gelmini, affacciarsi negli androni dei provveditorati dove ci si scambiano informazioni e consigli.
Il rovescio dell’individualismo sfrenato dei docenti in servizio è lo spirito di gruppo dei precari. Letteralmente bistrattati, trattenuti con qualche gioco di prestigio legislativo e amministrativo: “Vediamo, adesso vediamo. Un sussidio, la precedenza per le supplenze brevi (e prima a chi le davano?), la possibilità di tenere corsi pomeridiani (anche questo c’era già prima)”. Sembra di sentire lo cunto de li cunti, ovvero lo trattenimento de li piccirilli. Dov’è il lavoro, e soprattutto la concreta possibilità, sia pure proiettata aventi nel tempo, di essere assunti?
Inizia così, quest’anno, primo settembre, lo stesso giorno in cui era possibile mettere in regolale badanti. E magari è toccato anche a qualche precaria, “assumere” una badante. Quei corto circuiti della vita, per cui hai una madre da accudire e devi comunque uscire di casa per capire che ne sarà della tua professione.
intanto è incominciato il lavoro delle programmazioni educative e didattiche. Esecrata, odiata, copiata, redatta ex novo, la programmazione è un tassello chiave della didattica. A cui far seguire poi una concreta azione pedagogica. La mia collega Lisa, una che sa tutte le tassonomie a memoria, che ogni giorno consulta il sito del Ministero della pubblica Istruzione come io leggo l’oroscopo, mi ha confidato che per lei la pedagogia è il marito e la didattica è l’amante. L’ho guardata. E ha risposto fieramente al mio sguardo. Non ci posso fare niente, ha giurato, amo entrambe queste discipline, anche se sono la prima l’ho studiata da più tempo.
Una passeggiata in centro, no? Che ne so, a vedere le vetrine, a passeggiare senza obiettivi finali da raggiungere. Adesso che facciamo, le laison clandestine pure a scuola? E poi chi fa la escort? La pedagogia o la didattica? Non le ho detto niente di tutto questo. Sarà perché tante volte a me capita di sentirmi “l’utilizzatrice finale” di norme e procedure (pedagogiche e didattiche) che non condivido, mi sono sentita inadeguata rispetto alla sua voglia di fare, di entrare a scuola, con tutto il necessaire appena sfornato dal Ministero. Lei invece ha già la cartellina piena di bozze di progetti, vecchie e nuove redazioni di Pof, procedure di concorsi. E’ piena di slancio e di energia. Riesce a farmi dimenticare lo scetticismo e il disfattismo della prima ora. Ah questi insegnanti! Non finiscono mai di stupire.

02 luglio 2009

Leggere è cibo per la mente. passa parola

Ne parlavamo in treno quando andavamo a scuola. Lei lo faceva di sera, io di mattina presto. Il viaggio era il primo momento utile per dirci tutto. Proprio tutto. Il tono della voce, è ovvio, variava a seconda di quello che era successo, e certe volte neanche ci rendevamo conto di chi avevamo accanto. Mica ci raccontavamo non solo il fatto. No, no. Volevamo, l’una dall’altra, le emozioni, le sensazioni. Ci scambiavamo consigli e suggerimenti. Un confronto, tra me e mia sorella, che non è mai finito. La passione è passione, si sa. Non solo con lei, in verità. Certe volte nei nostri discorsi si inserivano gli amici, anche loro, portavano storie, personaggi, altre emozioni. E poi le amiche. Con altri suggerimenti perentori: “questo assolutamente”, “questo no, non perdere tempo”, “questo… non ti dico proprio”, “dimmi, dimmi altro che”. E dicevamo ancora. La passione è passione, già detto. Ma quella per i libri è una passione che “non la può capire chi non la prova”. Una passione necessaria in tutte le età della vita. Ancora di più nell’adolescenza. Era il nostro modo di comprendere, provare a comprendere i sentimenti, di capire quello che ci accadeva dentro e ci mancavano le parole per spiegarlo. L’amore, l’amicizia, i desideri. Ci entravamo dentro e non ci bastava mai. Per questo parlarne, a due a tre a quattro, significava leggere il doppio, il triplo di quello che materialmente riuscivamo a fare. E poi, vivevamo in un piccolo paese. Grazie ai libri, d’estate ci spostavamo nella cittadina di Nancy Drew, l’investigatrice di gialli che si ha insegnato a guardare le cose con un’attenzione ai limiti del maniacale, e spesso trascorrevamo la villeggiatura con Ellery Queen (di cui sono stata a lungo segretamente innamorata, e forse per questo non corrisposta). Poi sono arrivate le passeggiate in Oriente con Herman Hesse, a New York con Paul Aster, in Africa con la Blixen. Mia sorella invece si è chiusa a lungo nella stanza di Emily Dickinson, tutta azzurra a guardare il mondo, a colmarlo di parole, a leggere le sue missive (la lettera, diceva la Dickinson, un privilegio negato agli dei), a guardare – di nuovo – la natura, i fiori, i piccoli insetti. E poi mi ha passato tutti i testi della Mansfield, e ancora non ho trovato un posto più bello di quella casa di bambola con la piccola lampada gialla di un suo racconto, un posto più accogliente di certe sale dove si svolgevano balli di struggente tristezza. Solo nelle pagine che mi fatto leggere Sandra. Sono stata io a portarla a Parigi, anche se quelle figlie di Papà Griot proprio non le sopportavamo, per via della loro sconsiderata ambizione. Salire le scale di certi palazzi edificati da Balzac, ci faceva impazzire. Abbiamo litigato per Casanova – io seguivo un corso monografico all’università sui diari del Settecento e ne parlavo con lei che ancora faceva il liceo – c’è un passaggio in cui lui spiega che il momento più bello dell’incontro con l’amante è quello in cui sale le scale e si avvicina, si avvicina, si avvicina, si avvicina sempre più alla porta di lei. Casanova scrive che è quello il momento più bello della serata: mentre sale le scale. L’amore è tutto lì, quando tutto deve ancora accadere.
“Bello stronzo!” ha risposto lei, con la schiettezza che le è propria. “Ma chi? Casanova? E perché?”. “Uno perché comunque le cose le faceva accadere. Due perché vivere sempre facendo un passo indietro rispetto alla realtà è irritante per chi sta accanto”. “Sì, ma la dimensione fantastica, fantasmatica comunque fa parte di noi”. “Ricordati - mi ammoniva - che stiamo sempre parlando di uno sciupa femmine”. Ecco, i discorsi erano – sono - più o meno questi. Quell’anno, mentre leggevo Alfieri (“leggere per me è pensare profondamente il mondo”), Goldoni e Da Ponte (quello dei libretti di Mozart), lei divorava i romanzi che avevano dentro un po’ di filosofia, di scienze, di matematica. Non lo sapevamo che si chiama passaparola. E quando mercoledì ho visto la presentazione dello spot pubblicitario per la lettura “mi è venuta una mossa” (ma questo è l’effetto delle lezioni di linguistica di Raffaele Scialla, il mio alunno di Marcianise!). L’amore, l’amore per i libri, finiti in una pubblicità! La naturale pratica quotidiana di scambio, confronto, incontro incentivata come un detersivo che lava più bianco. Il passaparola come premessa di una campagna acquisti. Mi è sembrato come voler mettere un uccello in gabbia. Forse è solo gelosia, la mia. Ma non lo so, davvero non lo so, se mi piace che i libri si devono leggere così, a colpi di spot. (particolare non da poco: l'investimento complessivo è di 2,4 milioni di euro. ma quanti libri si potevano comprare?) Devo parlarne con mia sorella, quanto prima.

20 giugno 2009


Si chiama “Cinquecento libri per l’Abruzzo” l’iniziativa promossa da Caserta Musica, Libera libri e Macchine da presa per ricostruire una biblioteca in Abruzzo.
Una grande raccolta collettiva di volumi (nuovi o comunque in buone condizioni), da consegnare direttamente alle associazioni o da depositare nei lbar e nelle librerie in cui sono state allestite apposite scatole.
Ma si possono contattare gli organizzatori (anche qui, lasciando un commento al post) per poter consegnare o chiedere di ritirare i libri pronti per il viaggio.

C’è di tempo sino al nove luglio. Nei giorni successivi, gli organizzatori insieme ai donatori che vorranno partecipare, partiranno per Tempera (frazione de L’Aquila) dove sono stati presi accordi con la pro loco cittadina per accogliere “i libri liberati” a Caserta.
Sul sito www.liberalibri.it l’elenco aggiornato dei libri ricevuti.

19 giugno 2009

bocciature 2008-2009: che ho fatto io per meritarmi questo?

Esattamente quattrocentomila. 372 mila bocciati e 28 mila non ammessi alla maturità.
Questo il bollettino di guerra che chiude l’anno scolastico 2008 – 2009. Quello che era iniziato con la Gelmini a Cortina e gli strali contro gli insegnanti meridionali. Quello che è continuato con le riforme e i decreti a pochi giorni dalla fine del quadrimestre, con le regole cambiate durante il gioco, con le affacciatine dalla televisione a ricordare che comunque tutto questo è la scuola del merito, ed è finito con la soddisfazione sulla faccia, perché tutti questi bocciati affermano ed evidenziano che questa è veramente la scuola del merito.
Ma merito di chi?
A margine della domanda, un altro interrogativo: ma dov’è l’onda? Dove sono i ragazzi e le ragazze che a ottobre saltellavano “stella stellina la notte s’avvicina”? Non una protesta, un segno, una scritta sulla sabbia? Sulle barricate ci sono solo un gruppetto di adulti fanatici che urlano in libreria. E gli altri? Gli studenti, i professori? Tutti al mare o a studiare per il recupero.
Torniamo al merito delle bocciature. In chiave quasi psicanalitica. Un professore che boccia si sente riconfermato nel proprio ruolo. Potere, autorità, capacità di governare il flusso degli eventi presenti e futuri. Lo vedi? non hai studiato, adesso ti do la punizione, per il tuo bene, e poi ritorni sulla retta via. La bocciatura è il logos. Il padre.
La promozione è la madre. La promozione è accoglienza, medicazione di ferite dell’anima - (quest’anno ha avuto dei problemi) - e della mente (ha dato il massimo, più di così non ce la fa). La promozione è maternage allo stato puro. Un errore madornale per alcuni, perché non insegna ad affrontare la durezza del mondo, a forgiare il proprio carattere superando prove ed ostacoli.
“A Sparta, i bambini dovevano camminare di notte nudi nel bosco ….”, “sì si, a casapulla non ci stanno i boschi. E poi i figli nostri hanno tante cose da affrontare, la droga, i pedofili, non sono più feroci delle notti di Sparta?”. Come in altri frangenti della vita, anche quando si decide della promozione o della bocciatura, il codice paterno e quello materno si scontrano. (con mille variazioni nella realtà: ci sono presidi che vogliono promuovere tutti, professoresse paladine della selezione, e così con i genitori).
“Io credo che un anno di bocciatura a mia figlia farà bene… “. Appunto, il vecchio trucco: è per il tuo bene. Ammiro la sicurezza della mamma della mia alunna, esattamente come ammiro il suo spolverino rosa cipria di seta impalpabile che indossa quando viene a scuola a parlare con me. Era uno di quei giorni piovosi si maggio… Io ho le solite scarpette di gomma e i soliti pensieri: come fai a sapere cosa farà bene a tua figlia di sedici anni? Quell’età maledetta in cui un complimento ti fa volare in paradiso e un’offesa, un gesto di scortesia, una negligenza ti distrugge per un tempo infinito.
E’ probabile che la ragazzina soffra di più per il fidanzato che l’ha lasciata che per la bocciatura a scuola (verosimilmente la bocciatura se l’è aspettata, la fine del suo amore no), ma di qui a pretendere che l’esito scolastico sia una lezione di vita… credo sia esagerato.
Ammesso o non ammesso a frequentare la classe successiva è la dizione che si trova accanto al nome. E racconta di un percorso lungo un anno, spesso due (frase tipica in consiglio di classe: questa l’abbiamo già salvata l’anno scorso!). Spiega quello che è stato, ma non quello che accadrà. Anche se è facile prevederlo. Niente. Non accadrà niente. Perché una bocciatura non migliora il ragazzo, non lo trasforma sul piano cognitivo, non gli tira fuori dei cromosomi che erano sommersi o anchilosati in qualche anfratto del suo cervello. Il ragazzo, bocciato, non diventerà di certo uno studente migliore. Forse qualche vantaggio l’avranno gli altri che studieranno (un po’) di più, percependo la bocciatura dei compagni come deterrente.
Non credo che si debba fare della promozione una bandiera. Promuovere tutti è sbagliato quanto respingere tutti. E molti insegnanti, negli anni, accumulano una quantità di scrupoli e dubbi sugli alunni bocciati ingiustamente, su possibili errori che sono pedagogici e non giudiziari, la cui sola “fortuna” è quella di non essere condannati a pagare. Ma sempre errori sono.
Quattrocentomila studenti fanno un passo indietro e ripetono l’anno. Come ci siamo meritati alunni così? Con la nostra didattica sempre all’avanguardia? Saremo attrezzati di lavagne elettroniche ma non uno strumento che sia uno che ci spieghi come far superare gli errori di ortografia ad un alunno di quinta. E che dire dei corsi di recupero, progetti scuole aperte, pon, e tutto quell’altro (impossibile resistere alla tentazione della citazione. E che emozione menzionarLa!!!) “ciarpame” della istruzione? Nelle nostre scuole cantiamo, facciamo teatro, costruiamo osservatori astronomici e gastronomici, portiamo alunni in parlamento, nei campi di concentramento, ai forum, alla scuola di legalità. E poi: 372 mila bocciati e 28 mila non ammessi alla maturità.
I conti non tornano. Gli alunni ripetenti, l’anno prossimo ritornano.
E noi saremo lì, ad attenderli. Tra i banchi di una nebbia pedagogica che non ci fa vedere un bel niente.

10 maggio 2009


Certo, è stato detto di tutto. Quando una storia sbarca a Porta a Porta, entra nel regno della serializzazione dei casi umani. Perfetti sconosciuti diventano familiari, la villetta è scoperchiata, si aprono i cassetti dell’intimità, si vaga con lo sguardo della telecamera lungo le pareti, sui comodini, tra gli scaffali. I nomi, quelli soprattutto, entrano nella nostra vita. Diventano parte della cerchia di conoscenze comuni. E’ successo ad Anna Maria (Franzoni, ma è una delle poche ad aver conservato il cognome), ad Olindo e Rosa, perfino a Eluana. E adesso è il turno di Noemi. Da questo momento in poi, da quando cioè tutto è stato detto, si procede con la raccolta di particolari, di piccoli microscopici dettagli. Il pendente mostrato tra le dita (splendido il french delle unghie), i boccoli biondi, il vestito scollato, la colonna sonora di Scugnizzi cantata insieme al premier, il ristorante di Casoria, l’invito, e soprattutto l’aggettivo vezzeggiativo “papi”. Papi. Come nella canzone degli Squallor tanti anni fa.
Papi. E viene giù tutto. Come un terremoto. Stessa audience, verrebbe da dire se non si temesse di essere blasfemi e offensivi con chi il terremoto l’ha vissuto – e continua a subirlo – davvero.
Veronica impazza sulle copertine, a Noemi devono aver consigliato l’understatement. Per il suo e per il nostro bene.
E poiché so tutto di lei, della sua festa – ho visto l’invito e le foto su internet, mi sono iscritta al gruppo “Brinda con papi” su facebook - chiedo a loro, ai miei alunni altri particolari sulle feste dei diciotto anni, arrestandosi le mie competenze alle cerimonie di battesimo e di prima comunione.
I riti sono però più o meno analoghi. La festa è un tripudio di attese, di sogni, di fantasticherie. La fatidica data aleggia nell’aria almeno un anno prima. Si nutre di una ridda di ipotesi considerate e sconsiderate, di margherite sfogliate per la scelta dei locali (in centro o in periferia), del vestito (lungo o corto? per lei. T shirt griffata o giacca? per lui), degli invitati (solo amici o amici&parenti), del regalo per chiudere le feste (collanina d’argento comprata all’ingrosso al Tarì o charms di Hello kitty?) Questioni di vitale importanza, dunque.
Discussioni infinite i cui principali interlocutori sono: il /la festeggiato/a, la mamma, le amiche, gli amici. La confusione regna sovrana. E la festa si avvicina vertiginosamente, scivolando tra i meandri del tempo.
Esattamente come Noemi, anche i miei alunni si aspettano un ospite di riguardo. No, al presidente non ci aveva pensato ancora nessuno. Di alternative però ne hanno parecchie: cantanti neomelodici per un’ora o per tutta la sera, dj strafigo della radio o della discoteca più in voga del momento, anonimi animatori ma di comprovata esperienza che fanno ballare tutta la sala, compreso la nonna che chiude il trenino brigitteee e bardoooobardoo, brigitteeee e viene il sospetto che sia leggermente alticcia (no, no! È così di suo, argento vivo che tira fuori ad ogni festa di famiglia. Gli acciacchi ritornano l’indomani mattina).
L’ospite d’onore è forse l’unica decisione che spetta al padre, al signor Letizia della situazione: per un qualcosa di eccentrico o di significativo si arriva a sborsare anche tre quattro mila euro.
Mi mostrano un po’ di inviti, esito della felice coniugazione della bellezza della giovinezza e della magia del Photoshop. Bellissime, eleganti, televisive, tremendamente televisive.
Il must delle feste è comunque il cd della vita della diciottenne. Una raccolta di foto, e che fatica la raccolta!, coinvolgente amici parenti vecchi conoscenti, mandato a flusso continuo sul maxischermo del locale. Foto foto foto. Prima durante e dopo. Questa è la vita delle diciottenni festeggianti.
Dopo, però qualcosa cambia. Te ne accorgi che c’è stata una festa quando a scuola arrivano con la borsa di Luois Vitton (ma in quanti si sono messi insieme per comprala? Costa l’equivalente del mio attuale tfr), con un mega bracciale di Alviero Martini (perché piace così tanto?), con un ciondolo Sweet Year (e l’anno prossimo? Quando non si userà più cosa accadrà? Stessa sorte della chiave di Dolce e Gabbana in voga qualche anno fa). Ma te ne accorgi pure che ci sono alunni che non festeggiano mai. Che non gliene importa niente di niente. non hanno molto da festeggiare.
Perché una cosa sola ho capito, dopo la storia di Noemi e di tutte le ragazze con cui ho parlato in questi giorni: diciottenni si nasce, non si diventa.

25 aprile 2009

la scuola, i giornali e l'irresistibile bisogno di apparire


Ho trovato il pezzo forte della mia piccola collezione degli orrori (scolastici, s’intende). La mia raccolta, infinita di ritagli di giornale cresce a dismisura. Sui giornali, della scuola si parla sempre. Denigrata – che scuorno i dati sulla pessima preparazione degli studenti del sud; raccontata nei libri e recensita nei quotidiani (io stessa non faccio che raccogliere frammenti di esperienze, metterli uno accanto all’altro, pasticciarli e far venir fuori delle storie); e persino pubblicizzata.
Sarà un vecchio retaggio degli studi passati, ma la pubblicità soprattutto di enti e istituzioni chiamate solo a fare il loro dovere, a me desta sempre qualche sospetto. Una recitina, una manifestazione, un’iniziativa: quello che era un modo per porgere la vita di classe alle famiglie è diventato un rito ostensorio. Non vorrei essere blasfema, ma davvero la recitina viene innalzata dall’officiante- docente o preside davanti agli astanti per mostrare che la scuola sa fare questo e quest’altro.
Tutti bravi, tutti impegnati. Emozioni a fior di pelle e applausi a scena aperta. Benissimo, perfetto.
La scuola merita di essere apprezzata. Quella stessa scuola che altrove è derisa e denigrata.
Si chiama il giornalista, la giornalista – magari conoscente – per l’intervista, per il servizio e la scuola finisce sui giornali. Il giornale finisce nella macchina fotocopiatrice, gira in sala professori, poi magari viene ingrandito, incorniciato e appeso nei corridoi. Doppia pubblicità per la scuola e per i giornali.
Noi siamo qui. Tutti contenti, tutti sorridenti.
O quasi. Perché sui giornali, gli insegnanti, i professori che fanno didattica pura non ci sono mai. Per forza! Sono in classe a tenere la lezione, mica a fare pubbliche relazioni. Va bè, dicono quelli che fanno pubbliche relazioni, mostrando le piastrine delle funzioni di cui sono investite (referente capo della funzione strumentale del piano delle offerte creditizie scolastiche nazionali e internazionali e chi più ne ha più ne metta), noi lavoriamo per voi. Perché senza questa sorta di pubblicità progresso non ci sono neanche alunni, e voi in classe la vostra bella lezione ve la fate da soli.
Quelli della didattica pura neanche rispondono. Prendono i libri dal cassetto ed escono dalla sala professori. Al massimo qualcuno, il più suscettibile, fa qualche mugugno: così però la scuola sembra che la fanno solo quattro o cinque persone, quelli che fanno i progetti. Infatti, così è. Sono sempre loro, “sempre miezz”, a portare l’istituto su un palmo di mano.
Insomma, sembra che siano assunti con contratti diversi, i professori. Per scelta, ovviamente. Tutti possono fare i progetti, i corsi, le manifestazioni. Mica uno può impedire all’altro di esprimersi.
Giusto anche questo. Però: talvolta bisogna essere galanti. Come quando si apre la porta e si fa passare prima la signora. Ecco, prima gli alunni, non è il caso di dimenticarlo. Poi il resto. La processione dei nomi dei prof che hanno dato vita a questo e a quel progetto.
L’altro giorno, giusto per restare in tema religioso (oggi va così) leggo, in grassetto, i nomi dei docenti che avevano organizzato la celebrazione di un precetto pasquale. A cui aveva preso parte tutta la scuola. In cui c’era stata comunione e commozione, partecipazione vera e condivisa. Niente. Non c’è niente da fare. Dall’altare al piedistallo. Ogni occasione è buona per poter mettere in luce un pezzo di bravura. Dopo essersi santificati tutti quanti, da quel pezzo di giornale sono nati malumori, alcuni espliciti alcuni striscianti e sotterranei che adesso, per liberarsi c’è bisogno di un'altra messa. A cui seguirà un articolo di giornale a cui seguiranno altri dissapori. La sola cosa da fare è apprezzare il bello custodito in ogni ricominciamento.
(la foto, bellissima, l'ho rubata dal blog di gabriele romagnoli, una delle penne più interessanti e creative del giornalismo italiano)


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