Scritto sui banchi

17 marzo 2009

la strage degli studenti in germania... qui, da noi

Dietro le quinte. Che poi sarebbe dietro il pc. Svelo come nascono gli articoli che scrivo qui e sovente finiscono poi in una rubrica intitolata Terza traccia della rivista Il caffè. Partendo dal presupposto di avere un direttore very friendly, che non chiede mai e si fida – chissà se fa bene o male – dei suoi collaboratori.
Alcuni pezzi nascono sotto la spinta di eventi – un episodio mi stupisce, mi sconvolge, mi travolge o stravolge - torno a casa e scrivo. La realtà urla e chiede di essere raccontata. Ci sono le parole, i personaggi, la storia. Chi scrive deve solo ricombinare gli elementi. Un po’ come rimettere a posto una vetrinetta di chincaglierie e renderla presentabile. Talvolta non c’è neppure bisogno di questo, le storie bisogna porgerle così come sono state trovate, rubo l’espressione a Verga: pei viottoli dei campi. Dovrebbe essere questa l’essenza della scrittura più prossima alla realtà quale quella giornalistica: sunt lacrimae rerum. Questo è De Sanctis, che ai letterati ammoniva: togliete le lacrime vostre - ce l’aveva con i romantic(on)i da strapazzo - e dateci le lacrime delle cose. Più semplicemente: devono parlare i fatti.
Seconda opportunità: non succede niente. La routine quotidiana scorre come sempre. Piccoli moti sussultori, sorrisi mattutini, stanchezze da sesta ora del venerdì e del sabato. E allora è un po’ come staccarsi le crosticine da ragazzini. Devi tirare fuori qualcosa. Guardare qualcosa che non si vede. E costruirci intorno un pensiero più ampio, una riflessione che abbia senso. Quando non ci sono i fatti, c’è la scrittura. Che si inerpica sulle strade meno battute. Diciamo la verità: a volte articoli così sono di una noia mortale. Altre volte invece servono a fare luce sugli aspetti nascosti. E per chi scrive, superato il primo momento di panico, sono indispensabili per comprendere che davvero, credo sia Mallarmè, tutto il mondo è fatto per finire in un libro. La vita è terribilmente interessante che deve essere raccontata. Oppure, al contrario, è talmente uggiosa che la cosa migliore è rifugiarsi nelle parole scritte. In ogni caso: parole e mondo sono inscindibili. Si tratti di un libro, di un articolo di giornale, di una pagina web.
Terza possibilità di scrittura: non c’è nessun evento, non è successo niente a scuola, però camminando arrivano le idee. Ho un paio di itinerari di tre chilometri, giuro: calcolati con il contapassi!, e quando ho bisogno di trovare ispirazione mi metto in moto. In genere funziona: una scritta sul muro, un gattino seduto su un sedile di auto posata in giardino (giuro di nuovo: proprio ieri, ma dietro casa mia), un ex alunno che incontro e mi racconta una storia. Torno a casa e scrivo. Il concetto è: lasciarsi sfiorare dagli eventi, un po’ come quando si cammina accarezzando le foglie delle siepi. Tra le dita resta sempre qualcosa.
Quarta, e per adesso ultima possibilità. I fatti ci sono, in primo piano nelle cronache, però tu che scrivi non riesci a sintonizzarti su quello che ti circonda. Non ci riesci perché una storia ti fa venire il mal di pancia. Perché non è nelle tue corde. Perché diresti delle cose così sgradevoli che non è il caso di parlarne. E ti forzi un po’. Magari si scassa il catenaccio dei pregiudizi e riesci ad entrare in un luogo a te sconosciuto.
la scorsa settimana è accaduto questo: una scuola, lontana ma non troppo, da noi, un ragazzo, una pistola, quindici morti ammazzati più lui sedici, una chat in cui nottetempo aveva annunciato i suoi intenti.
Ho provato a vedere i video che sbucano da tutti i siti internet, so che devo leggere un articolo di commento di uno dei miei giornalisti preferiti, potrei gironzolare alla ricerca di approfondimenti, farmi un’idea e scrivere. Non ce la faccio. Non ci riesco. Si tratta di affacciarsi su un baratro. E vedere sotto: la solitudine spaventosa di un adolescente (moltiplicata per tutte le solitudini che incontro negli occhi dei miei studenti), il dolore dei sopravvissuti – gli altri studenti, i professori, i genitori – che a sua volta genererà altro dolore, altra solitudine.
Se fosse successo in Italia, la Gelmini l’indomani si sarebbe alzata e avrebbe annunciato subito l’installazione sulla lavagna luminosa di corsi di educazione e valorizzazione alla socialità (senza spiegare cosa dovevamo fare concretamente in classe). Invece è successo in Germania, il padre del ragazzino aveva le armi, dunque gran parte delle letture del fenomeno possono essere ricondotte a quel problema, non solo alla solitudine. Noi intanto continuiamo a occuparci del voto in condotta, dei bagni divelti, delle sigarette per terra. Dovremmo poter dire: per fortuna.
Ma neanche questo mi va di scrivere.


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