Scritto sui banchi

30 ottobre 2008

the day after - un racconto


Ho incominciato a scrivere questo racconto agli inizi di settembre e l’ho ripreso mentre in senato si discuteva il decreto. di educazione e di istruzione ne hanno parlato tutti, in televisione, per strada, sui giornali. fendendo i cortei e attraversando le aule vuote per lo sciopero ho sentito la tristezza silenziosa di molti colleghi e la protesta euforica dei ragazzi. da questa settimana abbiamo una nuova legge, la scuola cambierà volto, speriamo solo non finisca questo speciale momento di riflessione e di condivisione

Maestri non si nasce, non si diventa.

Aveva il telegramma tra le mani, e la paura che si potesse sgretolare. Leggeva e rileggeva. Alla ricerca di una conferma, temendo una smentita: “La signoria vostra è pregata di presentarsi…” Pregata di presentarsi? Ci sarebbe andata in quello stesso istante, se solo avesse potuto. Il suo primo incarico annuale. Niente più inutili convocazioni niente supplenze di qualche settimana, fine delle mattinate con lo sguardo fisso sul telefono. L’attesa era stata infinita, impossibile conteggiarla con normali unità di tempo. Quanto ci aveva messo per diventare insegnante lo calcolava in chilometri: allineate l’una dopo l’altra, tutte le file che aveva fatto dovevano essere su per giù quanto la tangenziale di Napoli. Diploma, laurea, specializzazione. Secondo diploma, supplenze e corsi di perfezionamento. Il vero lavoro era stato quello: allineare titoli di studio e esperienze, tradurli in punteggio, misurare pazienza e frustrazione mettendosi in fila dietro qualche sportello. Di tanto in tanto Alida se lo chiedeva: dove si va dopo aver fatto tutta questa strada?
“Al nord”, avevano risposto al sindacato, puntandole contro l’ago magnetico di una bussola invisibile: “Signorina” - il tono era perentorio – “Se non vuole restare a marcire qui per altri dieci anni deve trasferirsi e fare le domande in graduatoria al nord. Al nord, al nord del nord del nord. Più lontano che può”.
Non esageriamo adesso. Alida aveva scelto invece una bella cittadina del centro nord, quelle gemme di civiltà assai citate nel catalogo dei luoghi comuni: si vive bene, ci sono parchi e biblioteche, i mezzi pubblici sono puntuali e le scuole sono le migliori d’Italia.
A fine agosto era già lì, in un modesto alberghetto affacciato sul parco della città – era vero, c’erano parchi pubblici bellissimi, che nessuno maltrattava – e disfaceva i bagagli. Aveva incartato le scarpe con il giornale della domenica prima. Ancorché stropicciate, le dichiarazioni della ministra facevano il loro effetto.”La qualità della scuola è abbassata dalle scuole del sud. Organizzeremo dei corsi intensivi per gli insegnanti meridionali”. Poi però la ministra si era smentita. Gli insegnanti e le scuole meridionali, chissà.
E’ finita, pensava euforica mentre attraversava il corso principale a passo svelto. Almeno per quest’anno, precisava puntigliosamente a se stessa. L’assunzione definitiva sarebbe arrivata chissà quando. Al ministero del’istruzione avrebbero dovuto scriverlo, come alle file delle giostre: “Tempo di attesa tre anni”. Proprio come al luna park, la tra-fila per diventare insegnante era un insieme di piccoli segmenti, un serpente di persone imprigionato da transenne, a cui dare la sensazione di avanzare, mentre si restava immobili. Si restava disoccupati. Si restava precari. Si restava e basta. In quelle file aveva conosciuto il lato bovino dell’umanità e misconosciuto la sua vocazione pedagogica e didattica. Come lei, tanti che erano in fila, avevano smarrito aspirazioni e desideri. Per questo aveva imparato a considerare il tempo un ingrediente della vita da ignorare. Alida pensava al domani come un ologramma che si sarebbe rivelato senza preavviso: presente di merda, futuro radioso.
Era arrivata. Il cortile della scuola, pieno come uno stadio. Si diresse verso l’entrata zigzagando tra capannelli di insegnanti, chiedendosi cosa cavolo ci facessero tutte quelle persone a quell’ora. A ridosso del muro dell’istituto montavano un palco e contemporaneamente provavano l’amplificatore. “Sa saa prova!”. Fu spinta nell’interno dell’edificio dalla forza dirompente dei decibel. L’ingresso e i corridoi erano invasi dall’odore delle vernici a spray, c’erano striscioni a terra ad asciugare e rotoli di cartelloni colorati poggiati sui banchi. “Tieni!”, prima che potesse ringraziare, una donna con la zazzera rossa le aveva messo in mano un foglio intitolato “Manifestiamoci”. Seguiva un lungo elenco di appuntamenti, di lezioni da tenere in piazza e in altre scuole, persino una notte bianca in tutte gli istituti della città.
Finalmente raggiunse l’ufficio segreteria e firmò il contratto. Un’operazione di pochi minuti mentre nessuno badava a lei. Quando uscì, un uomo con l’aria di chi la sa lunga si accalorava e lanciava cifre tra gli astanti: “Sette miliardi in meno nei prossimi tre anni. Assunzioni bloccate, chiusura delle scuole con meno di cinquanta alunni. Questo decreto è una VERGOGNA!” Le chiamano razionalizzazioni, sono solo tagli. E con questi tagli irrazionali nessuno, proprio nessuno potrà più entrare nella scuola”.
Grazie per l’incoraggiamento, pensò Alida. E in silenzio lo mandò a quel paese. Aveva già guadagnato il cancello ma la signora con la zazzera rossa questa volta le sbarrò la strada. Per le manifestazioni contro la Gelmini – “centinaia, migliaia di manifestazioni” aggiunse con gli occhi chelida brillavano - c’era bisogno del contributo di tutti. “Abbiamo solo due mesi per bloccare il decreto. Ci serve una mano per gonfiare i palloncini, scrivere gli striscioni, non ti proponiamo di fare altro per adesso, perché sei giovane e ancora non conosci nessuno, poi con il tempo vedremo. Intanto puoi dare una mano a tagliare i nastri di velluto nero” Alida riconobbe la faccia stanca e appagata di chi aveva vissuto tanto tempo in piazza, tra cortei, sfilate, girotondi e manifestazioni. “La scuola è morta e tutti devono portare il lutto. Li distribuiremo il primo giorno di scuola”, spiegò Wanda, la collega zazzera rossa, mentre le porgeva un paio di forbici.
Dalle finestre entrava la voce di Daniele. Aveva saputo subito il suo nome: le colleghe non facevano che citarlo, chiamarlo (e corteggiarlo, sbuffava Alida). Ed era l’unico insegnante della scuola: “Bisogna spiegarlo bene ai bambini e alle famiglie il baratro verso cui stiamo precipitando. Altro che maestro unico! L’unica cosa è fare comunità, dimostrare che siamo in tanti”.
Però aveva una voce incredibile, bellissima nonostante il volume del microfono.“Dobbiamo fare tutti sciopero ad oltranza”. Alida ebbe un brivido. Poteva mai incominciare il suo primo anno di lavoro con lo sciopero ad oltranza?
Nei giorni seguenti lavorò tantissimo, dai nastri era passata alla costruzione delle marionette da distribuire ai bambini. Un’altra idea di Wanda, che con il pennarello rosso aveva scritto sopra: non siamo marionette. “Bisognerebbe insistere anche sull’aspetto sessista della questione”, diceva una collega mentre preparava coccarde di carta velina: “Si parla di maestro unico, ma in Italia oltre il 95 per cento delle insegnanti sono donne. La percentuale più alta d’Europa. E poi ci accusano di aver matrizzato l’insegnamento, di non aver educato i ragazzi al rispetto delle regole. Che manchiamo di autorevolezza”. “L’autorevolezza in classe è una continua conquista. E comunque la scuola è ben altra cosa rispetto agli slogan”. Daniele ogni tanto si affacciava tra le aule senza mai smettere di parlare e ragionare e catechizzare tutti – finanche semplici passanti - sul decreto e sugli scenari apocalittici che sarebbero seguiti alla sua approvazione. “Una catastrofe educativa”, spiegava con un dolcissimo accento romagnolo.
La notte bianca rappresentava il cuore degli eventi da organizzare. L’aria era carica di elettricità, tutti si muovevano freneticamente senza fermarsi mai. Alida aveva la sensazione di scoprire allora, solo allora, quanta eccitazione, quanta confusione, quanta passione possono esserci in una scuola. E quanta stanchezza: alle dieci crollò addormentata mentre leggeva le storie ai bambini già infilati nei sacchi a pelo. “Buongiorno…” La voce di Daniele, oramai era un incubo. Come la sua faccia. Non le piacevano quelli che piacevano a tutti, che si imponevano agli altri. Anche nei pensieri degli altri. “Ti ho portato il caffè”, disse più piano. Non era un sogno. Daniele era vicinissimo a lei, e gli altri intorno dormivano. “???”, chiese Alida, non trovando niente di meglio da dire. Poco dopo l’alba, erano seduti sul muretto del terrazzo della scuola. (Come faceva Daniele a sapere che non servivano le chiavi?) La città si illuminava piano piano. Lui le indicava romanticamente i nomi dei campanili, delle strade e delle piazze. Prosaicamente, poco dopo, le illustrò i diversi tragitti e la piazza dove sarebbero confluiti tutti i cortei della città. Doveva essere un grande giorno.
“Forse sei un politico mancato. Per te coinvolgere le persone è più importante della ragione per cui lo fai”, disse Alida. “Siamo tutti mancati rispetto a qualcosa. Hai ragione, la politica è stato un amore che ho lasciato scegliendo il mestiere, l’impegno quotidiano, la fatica, lo stare sul campo. Però puoi insegnare solo se hai voglia di apprendere. Se penso a quante cose ho imparato dai miei ragazzi, dalla scuola… Come non essergli grati, come non lottare per loro? Questa è una grande sfida”.
“Ma chi stai sfidando?” Quando indossava i panni dell’idealista e del puro, Daniele era insopportabile. “Perché non ci provi ad essere concreto? Il decreto passerà. Gli alunni si adatteranno e i genitori pure. Il problema è solo nostro”.
“E’ questa la visione egoistica che dobbiamo sconfiggere. Tutti i problemi della scuola sono problemi di tutti”. Ma da dove la prendeva tutta quella energia? Si stava già infervorando, alle sette di mattina. “E chi è capace di risolvere anche uno solo di questi problemi? Tu forse?”
Daniele la implorò: “Sentì, possiamo non parlare di scuola, io e te?”. “No, cavolo, adesso mi rispondi”. Così Daniele la baciò, a lungo, e Alida rispose con un sospiro. E le vennero in mente tutte le volte che aveva sospirato sbuffato respirato ed espirato facendo le file. Poi gli diede un bacio e un altro ancora. Questa volta era il display della vita che indicava il suo turno: stiamo servendo il numero… . “Otto e mezza, cazzo!”, esclamò Daniele sentendo l’orologio della piazza. Scesero le scale frettolosamente e si trovarono nel caos dei bambini e dei genitori, delle trombe e degli stendardi pronti per la manifestazione. Daniele prese il microfono e si mise alla testa del corteo, perdendola di vista per tutta la mattinata. Un fiume umano si riversava per le strade. Alida ascoltava brandelli di discorsi dei manifestanti. “Adesso basta con questi cortei”, diceva una collega ad un’altra “Se continua così gli stipendi saranno azzerati”. “Ottantacinque mila tagli in tre anni, non vi sembra un buon motivo per scioperare?” Intervenne Alida. Dopo quel bacio si sentiva trasformata in una pasionaria della pubblica istruzione. “Cento euro in meno al giorno per ogni giorno di sciopero non ti sembrano un buon motivo per restare in classe?” tagliò corto l’altra. Non lo sapeva che per ogni giorno di sciopero venivano sottratti cento euro dallo stipendio. Alida si sforzava di calcolare a quanto ammontava al momento la sua decurtazione. Proprio non ci riusciva, contando sulle dita capì che non avrebbe avuto soldi nemmeno per pagare l’albergo. Si ritrovò sola e inutile nel corteo. Daniele era poco più avanti, avrebbe potuto raggiungerlo in poco tempo. Avrebbe dovuto raggiungerlo. E prenderlo a sberle. Perché cavolo non le aveva detto che anche loro ci stavano rimettendo? Che quei tagli paventati erano già realtà, conti in rosso, difficoltà almeno per tre mesi a venire. “Stella stellina la notte si avvicina la scuola traballa l’istruzione va nella stalla” cantavano in coro i bambini. Stava per voltarsi indietro quando Wanda le affidò un pacco di volantini. “Li straccio e li butto tutti a terra, altro che parchi pubblici, altro che civiltà. Questo è l’ultimo”, giurava Alida mentre distribuiva “Manifestiamoci ancora”. Li aveva dati quasi tutti quando Daniele la raggiunse e senza diritto di replica la trascinò con sé, fendendo una fila piena di gente. Le diede il lembo di uno lenzuolo tagliato a metà, lui teneva stretto l’altro. “Non c’è più il futuro di una volta”, c’era scritto. E quello striscione li accompagnò e li tenne insieme per quella manifestazione e per tutte le altre a venire.

2 Comments:

  • Sei troppo brava, Marilena.

    Anche in Romania c'è un grande problema adesso con l'istruzione, rimpiagono l'educazione di una volta. I professori sono sempre stati mal pagati, solo le lezioni private li aiutavano a campare. Anche da noi vi sono tanti scioperi. Nel mio tempo (prima del 92) c'era il voto in condotta, una stupidaggine, non so se esiste ancora. So invece che nel mio liceo storico in centro città, di profile linguistico (francese), una ragazza è stata acoltellata dal suo fidanzato di 25 anni, nell'ufficio della direzione. Come mai? Non posso spiegarmelo. Mia bisnonna, di origine italiana, diceva "Questi sono impazziti per troppa libertà". Non tutti meritano questa libertà? Sarebbe troppo triste.

    Vedo che qui in Canada il livello di cultura generale è bassissimo, non interessa proprio, l'importante è avere dei professionisti che pagano le tasse e comprano tanto, non bisogna riflettere tanto per questo. Dove si puo guardare allora, Inglaterra forse?

    Da Anonymous Anonimo, alle 03 novembre, 2008 16:53  

  • cara antoaneta, grazie sempre per la lettura e per la tua scrittura. non lo so dove bisogna guardare. non credo l'inghilterra rappresenti un'isola felice in europa, altrimenti se ne sentirebbero gli effetti positivi un po' dovunque.
    credo che dobbiamo cambiare i parametri. chiederci cos'è l'ignoranza? cosa questi ragazzi sanno e non solo quello che non sanno. e soprattutto, quanta voglia, ciascuno di noi ha di migliorare se stesso e gli altri? o semplicemente di dedicarsi agli altri. che sgomento però, un accoltellamento in un ufficio di presidenza...
    ciao, a presto

    Da Blogger Marilena Lucente, alle 05 novembre, 2008 10:21  

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