Scritto sui banchi

23 settembre 2008

mattine nere

e poi ci hanno pensato gli alunni a farci sentire vivi, in questo mesto inizio d'anno. e qui c'è il rumore del mondo che entra nelle classe sempre più forte, sempre più spesso. "i nir, i nir"... i neri, i neri. Abbiamo discusso di loro. Scontrandoci. Da una parte: "hann fatt bbuon", hanno fatto bene; dall'altra: sann a sta. Devono stare alle regole - a tutte le regole - che ci sono qui, se vogliono stare qui. Ci penso adesso mentre scrivo, che hanno parlato spesso in dialetto. più del solito, voglio dire. come se solo la lingua potesse offrire il rifugio necessario. la discussione continua. Intanto questo il mio pezzo sul mattino di domenica:

Non si era mai visto niente di simile. Le urla, i pali divelti, le automobili rivoltate. La strada diventa un serpente di uomini e donne mescolati tra il fumo, le fiamme e la pioggia. Agli spari nella notte di venerdì era seguita la paura di sempre, insieme alla consapevolezza di vivere in una “terra martoriata” dove tutto può accadere. E tutto accade. Una strage da far west, forse droga, forse malavita, sei morti da rubricare sotto la voce “camorra” o regolamento di conti. Le prime spiegazioni, per quanto dolorose, risultavano comunque plausibili.Quello che è seguito dopo, gli immigrati in strada contro gli italiani, è stato invece quello che non ci aspettavamo. Quello che è sfuggito ad ogni logica di comprensione e di previsione.

E’ stato come vedere l’altra identità di Castel Volturno, ma più in generale, della nostra terra. Uomini, donne e bambini che vivono insieme a noi, attraversano gli stessi spazi di vita, che rivendicano i loro morti, chiedono giustizia. Con la rabbia che segue sempre al dolore. Con gesti estremi che sembrano i soli possibili in certi momenti.

Una città piena di gente trasformata in terra di nessuno, uno scenario vuoto dove ha trovato posto un malessere scomposto, a lungo sommerso. Una banlieu di disperazione che può esplodere in qualsiasi punto della nostra provincia. Contro la polizia, contro le istituzioni, contro gli italiani. Contro l’ignavia. Contro l’incapacità di reagire. E contro la vita a cui si sentono condannati.

“Non è razzismo!, non è razzismo”, ha gridato una donna ghanese. E’ disperata, ha perso il marito durante la sparatoria. Non è razzismo, anche se negli ultimi mesi in Campania, sempre più periferie sono diventate luoghi di violenza, di spedizioni punitive, perché il razzismo è un ottimo strumento di coesione quando si vive nella miseria. Nella miseria materiale e morale. Torna sempre utile avere qualcuno da condannare, da combattere, serve a sentirsi meno soli, e più forti.
Intanto i cassonetti, l’immagine basica dell’incuria in cui viviamo da tempo, venivano rovesciati e bruciati per bloccare il passaggio dei residenti sulla Domiziana. E tutti siamo finiti in ostaggio della paura. Una paura a cui non si riesce a dare nemmeno un nome. Paura di quello che potrà succedere ancora. Lontano dalle zone presidiate, dall’esercito che tra un po’ sta per arrivare. Quando meno ce lo aspettiamo. Questa però non è una emergenza che si affronta con maquillage televisivo e poche azioni ad effetto. Mentre le indagini proseguono, mentre la Prefettura cerca una strada per agire, ci sono comunità, associazioni, persone a lavoro per e con gli immigrati, che da decenni stanno tessendo le fila di un dialogo che si rivela possibile. Un’esperienza che può e deve proseguire. Ne va della stessa sopravvivenza della vita civile.


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