Scritto sui banchi

23 novembre 2008

la classe, le scuole

Fine settimana straniante. Di letture dedicate alla scuola. Ieri ho letto la classe, e oggi pagine e pagine della scuola crollata vicino Torino. Nella mia scuola non c'è un metro quadro a norma. Ho difficcoltà a trovare una maniglia che funzioni e nella maggior parte delle aule ci sono fili elettrici a vista. Manchiamo di tutto. ma forse, più di tutto di dignità. non sappiamo chiedere. non sappiamo farlo bene.
Da una parte la scuola, di fronte la Reggia. L'altro giorno Carlo D'Amicis, che ho coinvolto in un progetto, si chiedeva, chiedeva ai ragazzi, "sappiamo percepirle le differenze? sappiamo andare verso la bellezza?".
Poco fa un amico a telefono: è assurdo morire a scuola.
e forse dovrebbe bastare questa come espressione.
Invece bisogna continuare a ragionare. E capire questo caspita di assurdo di cosa si nutre, di cosa e da cosa è alimentato. dall'incuria di noi insegnanti, dalla politica, dai dirigenti, dagli alunni, dai genitori?

Qui di seguito, gli appunti scritti l'altro pomeriggio. Oggi già vecchi, forse inutili. O forse no.

La classe, di Francois Begadeau è la mia lettura di questi giorni. Mescolata alle decine di quaderni, compiti in classe, circolari di progetti, e altri libri. Tutti nella borsa della scuola. Diventata oramai il cassetto portatile di una ipotetica scrivania.
“Il romanzo che ha fatto disperare i professori e divertito fino alle lacrime gli studenti” come recita lo strillo in copertina, è davvero interessante. Una classe multietnica, ragazzi che si portano dietro mondi interi quando arrivano a scuola, professori costantemente in bilico tra disfattismo e tenacia, macchine della fotocopiatrice che funzionano a singhiozzo (banale ma vero: tutto il mondo è paese), discorsi sul calcio, sull’amore e sulla vita che si mescolano sui banchi, tra i banchi.
L’Autore sembra molto insistere sulla questione onomastica: i suoi studenti hanno nomi che sanno di mediterraneo, che portano dentro villaggi africani. Mentre gli insegnanti, finanche nei cognomi conservano intatta l’allure della lingua francese.
Questo è uno dei due aspetti che più mi colpisce. Nei miei registri c’è ancora una teoria di raffaele, Giuseppe, Alfredo, Tommaso, Antonio. Ci vedo dietro storie di nonni, di padri, di cugini con uguale nome e cognome. Ogni tanto, rarissimmente, trovo un Alessandro, un Federico, un Daniele. E senti anche la spinta di modernità, di apertura, di slancio verso il futuro in un nome scelto venti anni fa.
Lo so, ci sono scuole diverse, piene di Sara e Alessia, Federica, Martina e Chiara. Nomi modaioli, urbani. Ma nella mia scuola, come ne La Classe il nome è ancora attaccamento alla terra, radice bitorzoluta che porta lontano.
Una vera fissazione questa delle parole che hanno dentro una storia. Tanto che l’insegnante usa spesso il vocabolario, l’analisi logicia. Così come ha raccontato anche Pennac nel suo Diario di scuola. Beati loro, sempre con quel vocabolario tra le mani. Faccio anch’io un peccato di nostalgia ricordando il mio Piccolo Palazzi, fedelissimo compagno di banco, di cui avrò letto duecento volte tutte le tavole colorate e pochissime volte le parole.
Mi è sembrato di capire che nelle scuole francesi il dizionario è un po’ come per noi il gesso e il cassino. Sempre in classe. Invece da noi i vocabolari sono chiusi nelle biblioteche, prenderli è un viaggio, bisogna oltrepassare la soglia simbolica della bidella che ha le chiavi, delle scansie da aprire, del vocabolario da prendere, portarlo in classe, trovare mezza parola e poi rifare tutto il percorso all’indietro.
A nessuno verrebbe mai di dotare ogni classe di un dizionario. Come sempre noi prof dovremmo dare il buon esempio. E magari potremmo portarcelo da casa. E andare a scuola con il carrello della spesa. E in fondo, metaforicamente, non sarebbe male. E’ tutto quello che resta della nostra professione, la quotidianità.


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