Scritto sui banchi

07 agosto 2007

la scuola raccontata ad agosto

Ancora sui giornali. Finanche in prima pagina. La scuola, protagonista di un anno vissuto pericolosamente, è ancora oggetto di riflessioni, indignazioni, esternazioni. Siamo nel cuore dell’allarmismo post 11 settembre e da allora non si può raccontare qualcosa privandosi del dovere di intravedere catastrofi, dichiarare fallimento, bancarotta, time out e vivere momento per momento sotto il segno della apocalisse.

Ritaglio articoli di giornali, incollo, sottolineo, conservo nelle scatole dei vini. Non ce ne uno che parli bene della scuola. mai. Neanche per sbaglio. Della scuola non si può che parlar male.

Il ragazzino down picchiato con il telefonino ha dato il via. POi è venuto tutto il resto. Il bullismo, le professoresse seducenti, gli alunni sedotti, i presidi corrotti, le ragazzine insidiose. E la scuola è diventata una qualsiasi villetta da omicidi, scoperchiata da telecamere pruriginose e bisognose di notizie e di audience.

Scuola, raccontata così, come un organismo monolitico e compatto. Come se non fosse fatta di persone: insegnanti (poveri travet e altre definizioni ben collaudate), bambini piccolissimi, adolescenti, extracomunitari, collaboratori, genitori e tanti altri personaggi, tutti stipati dentro un'unica parola: scuola. E a seguire una serie di aggettivazioni negative. Pessima scuola, si legge. Ancora più raccapricciante se paragonata al passato, come si lamenta nelle ultime lettere: un tempo sì che si imparava! Cosa?

Mi ha sempre preoccupato il torcicollo ideologico che ci fa guardare sempre indietro. Adesso ne sono angosciata. Possibile che sia sempre sempre sempre meglio il passato di questo tempo che è quello che comunque ci è dato di vivere?

Una nostalgia davvero pernicioso. Claudio Magris domenica sul Corriere raccontava con nostalgia e gratitudine del maestro che ha spezzato le penne al suo compagno, per punizione.

Bellissimo articolo. Ma pericoloso. Troppo. Spezzare le penne, urlare, dare schiaffoni, bacchettate anche se raccontate con un sorriso bonario, erano e sono gesti di inciviltà, di violenza, di prevaricazione. Non possiamo sbagliare su questo, anche se animati da buonissime ragioni, anche se vogliamo alunni preparati ed educati. Il calcio nel sedere può essere liberatorio per chi lo dà, vuole essere un monito. Invece è semplicemente una resa, un fallimento.

Cambiamo le domande invece di tirar fuori sempre le risposte. La scuola che diventa mezzo di deformazione di massa (lo scrive Merlo con un articolo in prima pagina su Repubblica!) si interroga continuamente su se stessa, sul proprio valore o disvalore educativo, difficilmente ragiona sugli strumenti della didattica, sulle strategie di apprendimento, sulla dimensione cognitiva del proprio agire. Troppo concentrati sull’emotività, sulla soggettività, sulla impalcatura psicologica dell’insegnamento abbiamo dimenticato la riflessione sull’agire. Quotidianamente i nostri alunni, le loro disattenzioni, i loro videotelefonini ci obbligano a interrogarci sulla nostra pratica didattica, sul nostro modo di insegnare: come spiegare un teorema, una rivoluzione, una formula di chimica o semplicemente l’analisi logica? Non solo perché in una classe spesso ci sono trenta alunni, ma perché diverse sono le loro domande rispetto alla conoscenza, e soprattutto perché esprimono molteplici forme di sapere e di intelligenza che stiamo ancora imparando ad affrontare. Certo, è difficile fare allarmismo su questo aspetto, ma è proprio in questi frangenti, in classe, insieme agli studenti, che noi insegnanti siamo soli. Ancora più soli di un monolite sempre più frantumato.

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