Scritto sui banchi

15 aprile 2007

pedagogia in panchina


Lei è una insegnante di vecchio stampo. Di quelle che credono che la cosa più importante sia cambiare, migliorare, crescere. Come? Con lo strumento principale del suo/nostro lavoro: la parola.
Parlare ai ragazzi, spiegare, far pensare. Mica solo Pirandello e Svevo. No: spiegare la vita. Raccontare come si fa ad essere migliori, sempre. Una fede incrollabile nelle parole. Io, che pure le amo le parole, le invidio questa inossidabile fiducia nel potere taumaturgico dei discorsi.
Lui è suo marito, con le parole ci sa fare, è una specie di giocoliere che usa proverbi e massime di saggezza popolare come birilli per lanciare nell’aria di primavera i suoi ragionamenti vorticosi. “L’albero che è storto, storto rimane”. Le sue parole rivelano una sfiducia totale nel potere del cambiamento, della trasformazione. E dunque: a parlare si perde solo tempo.
Discutiamo di cose così, in questo pomeriggio di giardinetti, sulla panchina mentre i miei figli e i loro nipotini corrono sullo scivolo lanciando gridolini di gioia.
Da che parte stare? La signora è una vera e propria amazzone del linguaggio, della pedagogia, dell’insegnamento attraverso il dialogo. Continuo ad ammirarne la forza e la propositività: “Se si vuole qualcosa si ottiene, ma anche se non si ottiene niente, tu almeno il tuo dovere l’hai fatto”, dice lei. E però così ci spostiamo sul pernicioso versante delle prediche, del moralismo, delle coercizioni, blande, ma coercizioni. Chi parla tanto, chi chiede tanto ascolto, non sempre poi è capace di offrirne.
Lui invece mi sembra più sereno, con la sua classificazione botanica degli individui: “ci sono piante sempre verdi che non possono dare fiori, e alberi da frutto che non potranno mai mantenere intatto il loro fogliame. Non si può chiedere a qualcuno di darti qualcosa che non ha”.
Il ragionamento mi sembra più che accettabile. E profondamente rispettoso delle identità di ciascuno. (Non è un insegnante. Anzi, è uno che gli insegnanti - quelli che salgono sempre in cattedra, a scuola, ai giardinetti, in parlamento - non li sopporta proprio). “Ogni capa un tribunale”, conclude secco come un ramo di un albero assolato.
Però questo atteggiamento mi sembra troppo rinunciatario. Perché saremo pure tanti tribunali, ma un comune senso di giustizia bisogna elaborarlo, maturalo.
Nel frattempo i bambini sono scesi dalle giostrine, e al solito, i miei mi hanno chiesto di comprare le figurine. Questa è una cosa che mi piacerebbe poter cambiare. Perché bisogna pagare quotidianamente un dazio al bisogno bulimico di oggetti, che riempiono la casa e occupano i nostri spazi? Faccio un predicozzo o sgancio un euro? Mi tocca procedere, al solito, per tentativi.
(continua)

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