Scritto sui banchi

04 aprile 2007

cintura nera ind'o rion (che si chiama scuola)


Non sapevo niente dell’Aikido, fino a qualche mese fa. Come sempre, ci sono finita dentro sbucando dalle strade laterali che percorro insieme ai libri, grazie ai libri. L’aikido l’ho conosciuto nei libri di Gianrico Carofiglio. Nella trilogia, bellissima, dei casi dell’avvocato Guido Guerrieri, Margherita, una donna inquieta e tormentata come tante (come tutte forse), pratica aikido. Guerrieri è un boxer casalingo e ci sono tanti personaggi che qua e là praticano arti marziali. Non semplici sport, ovviamente, ma percorsi della mente, strade durissime da attraversare per conoscere qualcosa di più. Di se stessi e degli altri: lo studio della via e del perfezionamento della persona. Metafore della vita, in fondo, le arti marziali.

E ho incominciato a incuriosirmi degli alunni, ce ne sono tanti, che le praticano, del colore della cintura che indossano, delle tecniche di combattimento, delle parole che utilizzano e soprattutto del rituale dei gesti. “Nell’aikido non si acquista niente, mi dice un alunno, si perdono delle cose, ci si libera di ciò che disturba, è una via per ritrovare le cose semplici”. Quando si entra si fa un inchino, un saluto allo spazio sacro, il dojo, la sala o il luogo in cui si fa l’allenamento. “Per gli orientali, mi spiega un’amica a cui chiedo maggiori informazioni, lo spazio sacro o spazio protettore è impregnato delle vibrazioni dello spirito delle persone che lì si sfozano di migliorare e che a loro volta sono da queste influenzate”. Uno spazio che diviene sacro nel momento in cui viene scelto e dichiarato dal maestro e dall’allievo. Ci ho pensato a lungo allo spazio sacro, a quello che sono riuscita a capire, e ancora di più ho ripensato alla inflessione con cui i ragazzi pronunciavano la parola maestro. La caricavano di un significato denso e profondo. Assai diversa dal vacuo “professorè” e al modaiolo “prof!” che attraversa i corridoi delle nostre scuole.

Lo spazio sacro. Più ci pensavo e più mi convincevo che gran parte del malessere delle nostre scuole passa attraverso lo spazio, una terra di nessuno, una west land, in cui ognuno passa e lascia i propri segni. E non per sentimento di appartenenza ma in segno di diniego, di rifiuto, di sfregio. Stamattina nell’aula vuota ho preso (e ovviamente conservato) un post it che escalma: “Faciteve o’ crack ind’o rion”. Non lo so se lo compreranno il crack, se era uno scherzo, un invito, una supplica, un incoraggiamento. Ma il post it era lì, indifferente: al via vai di insegnanti che passavano in classe a firmare.

Continuo a esplorare le arti marziali, a indagare altri possibili modi di insegnare. “Dal tema del portamento che viene corretto in ogni allenamento – che si tratti delle forme (kata) o del combattimento vero e proprio (randori) – fino alla cerimonia del saluto (rei), puntuale all’inizio e alla fine della lezione, l’intero insegnamento del judo può essere paragonato a una lezione sulle buone maniere”.

Abbiamo dimenticato questo? Le buone maniere? Cos’altro ci manca in questo spazio che si chiama scuola, che non è sacro ma è ancora l’unico luogo in cui si continua, si deve continuare, ad educare? Nelle mie classi vuote stamattina mancavano gli alunni: hanno anticipato di due giorni le vacanze. Nell’aikido non si può insegnare se non a chi ha voglia di imparare. E c’è un proverbio buddista che recita: “quando l’allievo è pronto, il maestro appare”.

Invece io ero lì, da sola, in compagnia delle loro scritture. E delle mie domande.


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