Scritto sui banchi

15 febbraio 2007

buon san valentino, anche a loro


Ha un gigno crudele Vegeta, sul rettangolo di plastica trasparente. Lamicards, credo si chiamino le ultime figurine per cui i ragazzini fanno follia, gli edicolanti gongolano e le mamme e le maestre ci perdono la testa. Mio figlio vuole il guerriero giapponese sulla maglietta e siccome non ce ne sono ancora in giro, cedo al capriccio portandolo in uno di quei negozi che stampano tutto su tutti i materiali. Dalle tazzine al posacenere, dal bavaglino alla t shirt, appunto. Ho solo scelto il giorno sbagliato. Perché il negozio, un modesto locale ricolmo di cuori, maglie, cianfrusaglie di ogni tipo è pieno di gente. Ragazzine, per lo più. In fila, in allegro chiacchierio, con la foto in mano o un foglio di carta su cui sono appuntate delle parole. Non posso aspettare inutilmente e così scavalco con lo sguardo il gruppetto di adolescenti assiepate attorno al banco e chiedo al negoziante se si può riprodurre la figurina su un supporto di stoffa. “Signora, ma non potete passare avanti, se no queste m’accirono.” Infatti no, non voglio sorpassare nessuno. Ho solo bisogno di sapere se c’è un procedimento tecnico che consente di riprodurre questo disegno così piccolo su una superficie diversa. “Si può fare tutto, ma non oggi”. Mio figlio mette su un broncio a cui si accompagna un mio leggero disappunto. Nel frattempo, il titolare infila una foto nello scanner, la ragazzina in costume da bagno e in sorriso extra large, riappare sul monitor, con la scritta ti amo, in corsivo rosso. Dopo meno di quattro minuti è trasformata in un puzzle e incartata in un delizioso pacchetto di plastica. Avanti un’altra. Lei detta: “inizio 15-5-06 , la fine non ci sarà mai”. “Dove lo vuoi?”, chiede sempre il titolare mentre inserisce i dati nella macchina da cucire. “Su quel cuore là, quello più grande”. Ho dimenticato la ragione per cui mi trovo qui. E mi perdo nel delirio di frasi d’amore che a confronto quelle dei baci perugina sembrano blande litanie. “Tesò, si a vita mia”, detta un ragazzone con una tigre disegnata al centro del di dietro dei jeans. Mentre si sporge per raggiungere un cuscino, il proprietario del negozio mi passa davanti. “Signora, non è che vi voglio cacciare. Ma io qua pago cinquemila euro al mese. Lavoro bene si e no due volte l’anno. A Natale e a San Valentino. Il creaturo portatelo dopo il 14, mi metto a disposizione sua”. “Sentito a mamma?” Dico a mio figlio cercando di stemperare la delusione. “Torniamo dopo la festa. Adesso il signore deve lavorare”.
Ho sempre diffidato delle cerimonie in scatola, dei calendari artificiali stilati dalle vetrine dei centri commerciali, dei pensieri affettuosi che cascano giù dalle slot machine del marketing. Invece mi fermo a guardare quelli che hanno lavoro a san valentino (e poi alla festa della donna, del papà, della mamma… dai, ha esagerato con il fatto che guadagna bene due volte l’anno). E più dei cuori voluttuosi nelle pasticcerie sono stata attratta dai giganteschi peluche penzolanti sotto i gazebo lungo la nazionale appia, le rose di seta imbustate malamente e vendute a cinque euro sulla sannitica, le migliaia di gadget di ogni tipo offerti agli angoli delle piazze. Bancarielli che spuntati ovunque, dalla mattina alla sera. E tra cuore e amore, anche questa festa é passata. A lavorare.


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