Scritto sui banchi

01 febbraio 2007

il giorno della memoria


Settimana della memoria. Giorni dedicati al dovere di ricordare gli orrori della Storia. Perché il male si trasformi in monito. Perché il dolore, se solo fosse possibile, muova alla speranza. Attraverso le testimonianze, le storie che diventano importanti perché c’è qualcuno che le racconta. E qualcuno che ascolta. Magari a scuola. Che forse è il luogo giusto per diventare consapevoli di quello che accade. Di quello che è accaduto.
Lunedì gli studenti della mia scuola hanno incontrato Marta Herling, figlia di Gustav e Lidia Croce.
Autore de Un mondo a parte (1952), Herling ha raccontato la vita nei gulag sovietici, “luogo di prigione e martirio” dove ha trascorso parte della sua giovinezza. Sino alla liberazione nel 1942.
Mio padre avrebbe voluto leggessimo alcune pagine del suo libro, dice Marta indicando i capitoli da proporre agli studenti. Ma loro vogliono sapere prima di lei, del suo rapporto col padre e ancora di più con quel libro: “Ho letto quel libro a 16 anni e non ne ho mai parlato con mio padre. L’ho letto dimenticando che stava parlando di lui. E ancora oggi, mentre sceglievo i brani da leggere qui, mi è difficile accettare che lui abbia vissuto questa tragedia”.
Eppure tocca a lei, “figlia dell’esilio”, il compito di raccontare. Di continuare il faticoso lavoro della testimonianza. Nasce così la cura de “Il pellegrino della libertà” (Ancora del Mediterraneo, 2006), una raccolta di racconti e saggi inediti che ripercorrono la vicenda biografica di Herling: dalla fuga dalla Polonia al mondo a parte del gulag, dalla guerra all’approdo in Italia, a Sorrento. Dal buio dell’esperienza sovietica all’immersione nella luce del Mediterraneo, dalla prigionia alla libertà, dalla morte alla vita. Il volume si chiude con le riflessioni di Herling sull’inscindibile legame tra esilio e scrittura, tra la propria lingua di origine e quella del paese in cui ha scelto di vivere, o come amava ripetere lui, dice Marta, “il paese in cui aveva scelto di morire”, l’Italia.
Ma è la vita nel gulag che rappresenta il buco nero in cui precipita l’attenzione e lo sgomento degli studenti. “Lavoravamo dodici ore al giorno – si legge nel Pellegrino – nelle più severe condizioni climatiche, dato che l’inverno artico riserva spesso temperature di quaranta gradi sotto zero. (…) Gli abiti che indossavamo erano più fagotti di stracci che veri ep propri vestiti e i casi di congelamento erano all’ordine del giorno. La razione giornaliera di cibo consisteva di una zuppa priva di qualsiasi grasso e di carne – semplice acqua calda con qualche misero ingrediente – e pane nero….”. Come si poteva sopravvivere? “Mio padre, risponde Marta (e sono tante le domande che le sono state rivolte), scrive che uno dei momenti più belli della giornata era quando rientravano dal campo e vedeva le luci, la campagna, quello che continuava ad essere fuori al campo”, e quasi accompagna con la mano il disegno di quel profilo di vita. “Sicuramente, mio padre ha scritto il suo libro prima di tutto nella sua mente. Scriveva perché aveva bisogno di capire che cosa accadeva. Per non soccombere. Per testimoniare le vite degli altri. Erano i compagni di campo che spesso gli chiedevano di testimoniare: tu sei giovane, sei forte, racconta di noi. E lui non esitava ad ammetterlo: come scrittore sono nato nel gulag”. La scrittura è anche questo: forza di ricordare, fatica di raccontare. E, simmetricamente, la storia è anche questo: conoscenza e prima ancora coscienza.


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