Scritto sui banchi

04 dicembre 2006

Scontro di civiltà per un ascensore in PIazza Vittorio

L’altro giorno, dopo tanto tempo, ho incontrato la mia amica Paola. E’ come me una lettrice da due o più libri alla settimana. Cosa leggi?, mi ha chiesto. Per lei il piacere della lettura si prolunga nel piacere della narrazione. Parlare dei libri però richiede tempo, calma e attenzione. L’altra sera c’erano una ventina di persone urlanti. E allora, cara Paola, eccolo qui il racconto di un libro secondo me bellissimo. Uno di quei libri prepotenti, al di là della storia che hanno dentro. Meglio: è uno di quei libri che hanno sguardi prepotenti che si conficcano negli occhi dei lettori. E dopo averli letti è impossibile guardare le cose come prima.

Dopo “Scontro di civiltà per un ascensore in Piazza Vittorio” di Amara Lakous (Edizioni e/o) nessun ascensore sarà più lo stesso. Situato al centro fisico di un condominio, l’ascensore è epicentro di conflitti e discussioni, crocevia di umori e malumori, avvolto dalla spirale di scale che indicano parziali e temporanee vie di fuga.
E’ senza dubbio modello di elevazione della civiltà, afferma con sicumera un professore milanese emigrato a Roma, che mai e poi mai raggiungerà un piano a piedi. Bisogna continuamente pulirlo, lavarlo, proteggerlo dai guasti di obese cameriere peruviane, per Benedetta, la portiera napoletana che di quel continuo via vai non ne può davvero più. Nelle riunioni di condominio si discute se santificarlo con la foto del Papa o di Padre Pio o se piuttosto lasciarlo libero e laico come è adesso. Intanto c’è qualcuno che ci fa la pipì dentro. E qualcun altro che non lo prende mai. Fa bene, perché lì dentro, c’è stato un morto ammazzato. Il libro incomincia di qui. Dall’inchiesta sulla morte di un tipaccio poco raccomandabile, un Gladiatore, che nel condominio abitava. Unico indiziato Amedeo, l’immigrato che conosce benissimo l’italiano, l’amico di tutti, indispensabile come “un te caldo in un giorno freddo”, che è scomparso proprio il giorno dell’assassinio.
Ciascun personaggio una voce, una confessione da fare in un interrogatorio. Sotto i fari accecanti della verità. E della giustizia. Come se bastasse la parola della legge a governare l’imbrigliato via vai di personaggi e di nazionalità, di stati d’animo e di certezze che transitano a Piazza Vittorio.
Ogni personaggio prende voce e racconta il proprio Amedeo, la propria parziale porzione di verità, con un linguaggio unico e assolutamente riconoscibile. Siamo fatti di parole. E le parole schiudono certezze. Un iraniano che dà da mangiare ai piccioni in realtà spaccia droga, l’apostrofe guagliò è senz’altro scostumata, l’elegante mercì è ancora peggio. Il dialogo. Il dialogo dovunque invocato per gli incontri delle civiltà si rivela il meno idoneo degli strumenti. Le parole sono buone per rovistare pregiudizi, per infilare malintesi, per siglare paure.
Sarà per questo che tra un personaggio e l’altro si sente un ululato, un’altra voce, un’altra persona che racconta in fuori campo la sua verità. Ulula Amedeo, perché vuole essere allattato dalla lupa e perché ama troppo le parole per poterle sprecare. Legge, traduce i classici, chiosa i libri. Ha bisogno di capire. Ma soprattutto di fare. Sarà per questa sua concreta disponibilità che è benvoluto da tutti.
Un noir che corre via veloce, con finale a sorpresa e risoluzione del caso. Al lettore però vengono consegnati altri dubbi. Più profondi, più radicali. Dove sono i confini tra noi e gli altri? Quanto ci è dato di capire di una persona? Conoscere gli altri significa – sempre - muoversi a tentoni nel buio. Conoscere se stessi porta l’eco di ululati strazanti nel cuore della notte. Se poi gli altri provengono da una terra straniera – ma chi non proviene da una terra straniera? – allora tutto si complica terribilmente. Da Piazza Vittorio si squaderna un mondo di emozioni feroci: la belva della nostalgia, la fame d’amore, l’inferno della tristezza. Sino alla soglia del nostro ascensore.

Paola, com’è fatto l’ascensore del tuo condominio?


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