immagini e schermi. ancora e ancora
ricevo un interessante commento su quello che accade dentro la scuola, vista da fuori. ancora da da uno schermo. lo firma telescrivente. lo condivido con voi.
Picchiano e filmano armati di telefonini.
Filmeranno coloro che picchiano, armandosi di telecamere a circuito chiuso.
Immagini filmate contro immagini filmate. Così alcuni presidi vogliono rispondere alla proliferazione di episodi di bullismo e teppismo: installando nelle scuole sistemi di video-sorveglianza. Dando battaglia ai fotogrammi violenti con altri fotogrammi destinati a smascherare e punire. Un altro paradosso dei media.
Telecamere nelle classi, nei corridoi, nei bagni. Pare già di vederle, sopra il crocifisso e l’effigie del Capo di Stato. Sarà una guerra virtuale ambientata nelle trincee scolastiche. Sarà la guerra dei display: schermi contro schermi, ad armi pari. Anche qui, a scuola, tutti spettatori e partecipanti. Tutti catturati nel gioco di specchi dei media: a guardare e a farsi guardare. Tutti in un frame che rimanda ad altri frame.
Viviamo in un’implosione di immagini riflesse. Che si rincorrono. Si tengono per mano. Intrecciano tra loro relazioni pericolose. Saltano in aria finanche i modelli visivi della seduzione e del maternage femminili. La militare americana che si fa fotografare mentre irride il prigioniero iracheno nel carcere di Abu Ghraib sembrava lontana dal nostro universo, isolata sull’orizzonte efferato della guerra. E invece la postura trionfale di quella donna ora combacia – in una perversa affinità elettiva – con quella della ragazza che mette in rete il filmato del pestaggio del compagno autistico. Una è lo specchio dell’altra.
I media hanno prodotto un nuovo inconscio ottico, una nuova sensibilità ai riflessi dell’immagine, scrive l’antropologo Franco La Cecla in un saggio appena uscito (Surrogati di presenza, Bruno Mondadori). “Viviamo oggi nella pienezza realizzata di uno ‘statuto degli specchi’, nella pienezza di forme che hanno la propria sostanza in qualcos’altro, nel rimando a qualcos’altro”.
Le immagini rimpicciolite, mosse, sporche dei telefonini di bulli e pupe rimandano e sostituiscono una presenza reale. I ragazzi incriminati si difendono: si trattava solo di una messa in scena, abbiamo finto di dare calci, li abbiamo solo mimati. Rivedono il filmato e non si riconoscono. Vogliono solo dimenticare. Invece le immagini stanno lì. Hanno acquistato un’anima. Non si possono dimenticare.
Oltre alla giusta punizione, al riconoscimento delle responsabilità e alla discussione collettiva sulla violenza, bisognerebbe cominciare con quei ragazzi – con tutti i ragazzi - un viaggio di esplorazione nell’universo delle immagini. Ribattere alla violenza con una raffica di domande (e il libro di La Cecla ci può aiutare molto): a quale deposito interiore di immagini avete attinto per produrre le vostre immagini? Da dove viene il desiderio di vedere e di essere visti attraverso le immagini? Quali sogni, quali immaginazioni stanno dietro questo modo di comunicare - e di vivere - fatto di immagini riflesse? Siete proprio sicuri di poterle rinnegare, quelle immagini?
Ma poi siamo tutti a doverci interrogare, con o senza video-sorveglianza, su questa tensione del mondo contemporaneo a farsi immagine, e delle immagini a diventare l’anima della realtà. Fino alla domanda delle cento pistole, che vorrei rilanciare, cara Marilena, ai tuoi colleghi professori: come possiamo “mediare” con le immagini, traendone forza e ricchezza, piuttosto che disagio, rabbia o indifferenza?
telescrivente
Picchiano e filmano armati di telefonini.
Filmeranno coloro che picchiano, armandosi di telecamere a circuito chiuso.
Immagini filmate contro immagini filmate. Così alcuni presidi vogliono rispondere alla proliferazione di episodi di bullismo e teppismo: installando nelle scuole sistemi di video-sorveglianza. Dando battaglia ai fotogrammi violenti con altri fotogrammi destinati a smascherare e punire. Un altro paradosso dei media.
Telecamere nelle classi, nei corridoi, nei bagni. Pare già di vederle, sopra il crocifisso e l’effigie del Capo di Stato. Sarà una guerra virtuale ambientata nelle trincee scolastiche. Sarà la guerra dei display: schermi contro schermi, ad armi pari. Anche qui, a scuola, tutti spettatori e partecipanti. Tutti catturati nel gioco di specchi dei media: a guardare e a farsi guardare. Tutti in un frame che rimanda ad altri frame.
Viviamo in un’implosione di immagini riflesse. Che si rincorrono. Si tengono per mano. Intrecciano tra loro relazioni pericolose. Saltano in aria finanche i modelli visivi della seduzione e del maternage femminili. La militare americana che si fa fotografare mentre irride il prigioniero iracheno nel carcere di Abu Ghraib sembrava lontana dal nostro universo, isolata sull’orizzonte efferato della guerra. E invece la postura trionfale di quella donna ora combacia – in una perversa affinità elettiva – con quella della ragazza che mette in rete il filmato del pestaggio del compagno autistico. Una è lo specchio dell’altra.
I media hanno prodotto un nuovo inconscio ottico, una nuova sensibilità ai riflessi dell’immagine, scrive l’antropologo Franco La Cecla in un saggio appena uscito (Surrogati di presenza, Bruno Mondadori). “Viviamo oggi nella pienezza realizzata di uno ‘statuto degli specchi’, nella pienezza di forme che hanno la propria sostanza in qualcos’altro, nel rimando a qualcos’altro”.
Le immagini rimpicciolite, mosse, sporche dei telefonini di bulli e pupe rimandano e sostituiscono una presenza reale. I ragazzi incriminati si difendono: si trattava solo di una messa in scena, abbiamo finto di dare calci, li abbiamo solo mimati. Rivedono il filmato e non si riconoscono. Vogliono solo dimenticare. Invece le immagini stanno lì. Hanno acquistato un’anima. Non si possono dimenticare.
Oltre alla giusta punizione, al riconoscimento delle responsabilità e alla discussione collettiva sulla violenza, bisognerebbe cominciare con quei ragazzi – con tutti i ragazzi - un viaggio di esplorazione nell’universo delle immagini. Ribattere alla violenza con una raffica di domande (e il libro di La Cecla ci può aiutare molto): a quale deposito interiore di immagini avete attinto per produrre le vostre immagini? Da dove viene il desiderio di vedere e di essere visti attraverso le immagini? Quali sogni, quali immaginazioni stanno dietro questo modo di comunicare - e di vivere - fatto di immagini riflesse? Siete proprio sicuri di poterle rinnegare, quelle immagini?
Ma poi siamo tutti a doverci interrogare, con o senza video-sorveglianza, su questa tensione del mondo contemporaneo a farsi immagine, e delle immagini a diventare l’anima della realtà. Fino alla domanda delle cento pistole, che vorrei rilanciare, cara Marilena, ai tuoi colleghi professori: come possiamo “mediare” con le immagini, traendone forza e ricchezza, piuttosto che disagio, rabbia o indifferenza?
telescrivente
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