Scritto sui banchi

13 ottobre 2006

a scuola con la spazzatura

La normalità a volte è un bene prezioso. E’ una necessità. Un’ancora di salvataggio. E quando non c’è, siamo disposti a tutto. Fingiamo che ci sia. Almeno quel poco che possiamo. Riordinare la casa, andare a lavoro, uscire con gli amici. Non è che dimentichiamo quello che c’è intorno. Cerchiamo solo di superarlo. Senza ignorarlo. Ovviamente. Laura esce di casa la mattina e si mette i capelli lunghi sul viso. Cammina veloce e per quanto può cerca di non respirare col naso. Le buste della spazzatura hanno invaso tutto il vialetto del suo parco. Le montagne di rifiuti sospingono i pedoni al centro della strada, obbligano ad inventarsi percorsi più lunghi e tortuosi. Lo stesso per le bici. Va peggio per le macchine, ma almeno dentro gli abitacoli si possono alzare i finestrini. E guardare speranzosi la silhuette dell’arbre magic che ondeggia dallo specchietto. Ci sono bidoni stracolmi ovunque. Sacchetti abbandonati tutto intorno. Lasciati con rabbia. Con indolenza. Con rassegnazione. Un gesto faticoso, oramai, quello di buttare la spazzatura. Pesa come un macigno. Come la vergogna di abitare in un posto e non sapere come fare per prendersene cura. Anche le spiegazioni, le più risapute, sono spazzatura. Montagne di luoghi comuni o di denunce accorate che nessuno sa come rimuovere. Ogni tanto, in qualche punto della città si fa più pulito. Al mattino ci si sveglia e si trova una strada lavata, qualche contenitore finalmente svuotato. E’ una rassicurazione che dura un attimo. Svoltato l’angolo, attraversata una strada, usciti da un sottopasso, la situazione è la stessa del giorno prima. Centinaia di metri di spazzatura. Persino davanti le scuole materne. I piccolini ci vanno. Le mamme protestano. Ma lasciano comunque i bambini a scuola. Escono e si rimettono il fazzoletto davanti alla bocca. Qualcuna telefona al 113. Dovunque una alzata di spalle. I ragazzi alle superiori, loro che possono, decidono di non entrare. Chiedono al preside la chiusura dell’istituto. E’ una decisione che non può prendere la scuola, spiegano i professori ai ragazzi, tentando di farli entrare in classe. Qualcuno ci riesce, qualche classe entra. Qualche altra classe resta fuori. Va a casa. Attraversando vialetti stracolmi di spazzatura. “A casa mamma accende l’incenso”, dice timidamente Valeria. Alza le spalle perché capisce bene che non c’è molto da fare, in realtà.
“Però non è giusto farci vivere così. Peggio delle bestie”. Roberto è arrabbiato. Ed era arrabbiato anche l’altro anno quando si assentava da scuola per manifestare contro l’apertura della discarica ad Acerra. “Scriviamo una lettera al sindaco…” , cerca di smuovere le acque, di dare un ordine alla massa di studenti fuori scuola, sparsi da un marciapiede all’altro per allontanarsi dalla spazzatura. Spazzatura. Bisognerebbe vederla per farsene un’idea. Un materasso, decine di barattoli di pelati della pizzeria di fronte, cassette di frutta, la scatola di una scarpiera da montare, sacchetti slabbrati. La prepotenza della normalità. Ognuno a casa continua a fare quello che gli pare. E a buttare quello che deve buttare. I pochi volenterosi hanno smesso di fare la raccolta differenziata. “C’addà fa u sindaco?” risponde Anna mentre schiaccia col tacco la cicca della sigaretta.
Dopo un’ora si riesce a fare lezione. “Zacinto mia. Che te specchi nell’onde del greco mar da cui vergine nacque Venere, e fea quelle isole feconde col suo primo sorriso, onde non tacque …” Le mosche si posano sui libri e dalle finestre ci raggiungono folate di cattivi odori. Fingiamo una normalità che ci rassicura. E che non dura. Non può durare. Non deve durare.


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