natasha e le gru
Mi tira i pensieri con insistenza l’immagine di quel bambino abbandonato in un palazzo. Guardo la tv mentre metto in ordine in cucina, Natasha racconta la sua storia. L’intervista procede con domande che scheggiano tutti gli anni vissuti sotto sequestro. Rallento i mie movimenti. Mi fermo sempre più spesso. Il bambino tira ancora i pensieri. E’ quello del romanzo di Levitt letto almeno 15 anni fa. La lingua perduta delle gru. Il piccolino è solo. Non ha mai visto nessun essere umano. Devono costruire un palazzo di fronte al suo, arrivano le gru. Incomincia a parlare con loro, come loro. Le braccia si muovono a destra e sinistra, in alto e in basso. La lingua del bambino, quella delle gru.
Osservo l’adolescenza di Natasha, la bandana mauve sui capelli, la camicia e i pantaloni in gradazione viola; il lucido sulle labbra, l’ombretto perlato sugli occhi. Ascolto la sua storia. Le sue parole. Il linguaggio è colto, attento, curato. Ancor più dei suoi vestiti. Quali sono state le sue gru? Come ha fatto il suo linguaggio a crescere ed evolvere nello spazio angusto di una casa prigione? Le parole hanno bisogno di aria, di luce, di vento. Per mischiarsi con altre parole. Altrimenti muoiono. Rinsecchite dalla povertà, dalla noia, dalla paranoia. Natasha spiega che lei leggeva di tutto, dalle scritture sullo spazzolino da denti alle riviste che “il criminale” portava in casa. E soprattutto guardava la televisione. Che ha trasformato una bambina che parlava bene in una ragazza dall’eloquio ricco ed elegante. Le ha insegnato a parlare e a parlare di sé. La sua educazione sentimentale si è svolta tra talk show e reality. Un apprendistato durato anni. E poi riprodotto alla perfezione. Lei è in televisione (e non a casa con i suoi), si muove a suo agio, abbassa lo sguardo, si tocca il viso, a volte è spiritosa altre drammatica. Il montaggio sapiente degli operatori mostra ora il giornalista ora uno psicologo. Ma è del suo volto, delle sue parole che gli spettatori hanno bisogno. La macchina da presa ritorna da lei. E’ pure bella. Vuole fare l’attrice, dice. Non solo parole. Anche i pensieri, i sogni, i progetti sono stati inondati dalla luce artificiale della tv. Sono cresciuti nella stessa serra. Resto incollata al video tutto il tempo dell’intervista. Davanti a questa piccola gru vestita di viola che snocciola interi anni di follia e dolore.
Osservo l’adolescenza di Natasha, la bandana mauve sui capelli, la camicia e i pantaloni in gradazione viola; il lucido sulle labbra, l’ombretto perlato sugli occhi. Ascolto la sua storia. Le sue parole. Il linguaggio è colto, attento, curato. Ancor più dei suoi vestiti. Quali sono state le sue gru? Come ha fatto il suo linguaggio a crescere ed evolvere nello spazio angusto di una casa prigione? Le parole hanno bisogno di aria, di luce, di vento. Per mischiarsi con altre parole. Altrimenti muoiono. Rinsecchite dalla povertà, dalla noia, dalla paranoia. Natasha spiega che lei leggeva di tutto, dalle scritture sullo spazzolino da denti alle riviste che “il criminale” portava in casa. E soprattutto guardava la televisione. Che ha trasformato una bambina che parlava bene in una ragazza dall’eloquio ricco ed elegante. Le ha insegnato a parlare e a parlare di sé. La sua educazione sentimentale si è svolta tra talk show e reality. Un apprendistato durato anni. E poi riprodotto alla perfezione. Lei è in televisione (e non a casa con i suoi), si muove a suo agio, abbassa lo sguardo, si tocca il viso, a volte è spiritosa altre drammatica. Il montaggio sapiente degli operatori mostra ora il giornalista ora uno psicologo. Ma è del suo volto, delle sue parole che gli spettatori hanno bisogno. La macchina da presa ritorna da lei. E’ pure bella. Vuole fare l’attrice, dice. Non solo parole. Anche i pensieri, i sogni, i progetti sono stati inondati dalla luce artificiale della tv. Sono cresciuti nella stessa serra. Resto incollata al video tutto il tempo dell’intervista. Davanti a questa piccola gru vestita di viola che snocciola interi anni di follia e dolore.
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