Scritto sui banchi

11 dicembre 2006

Fa' la differenza

Prima i manifesti nella città. Bianchi con i disegnini dei cassonetti, gli orari, le indicazioni per buttare la spazzatura. Poi sono arrivati i sacchetti verdi e neri, consegnati dall’amministratore del condominio, infine un incaricato del comune che ci ha consegnato il cartoncino pieghevole che spiega cosa fare. Si ricicla. Evviva! Sono contenta, contentissima. Consumare è una necessità, una moda, una follia. Riciclare una cultura. Un gesto di civiltà. Un piccolo contributo alla città.
“Ma le buste sono tantille”, protesta una vicina. “A me servono almeno quattro al giorno”. “Però è un casino, mi dice l’amica. A casa stanno dieci buste in mezzo. E perchè a casa di mia suocera non si fa ancora? Quella abita qua dietro. E io quando non mi ricordo butto tutto insieme e poi vado a casa sua con la busta”. No, non dobbiamo essere disfattisti. Non adesso. Voglio essere ottimista e mi accorgo che devo essere tenace. La raccolta differenziata funziona benissimo in tanti posti. Perché qui no?
Ma i bidoni grandi dove sono finiti? Sostituiti da cestini più piccoli quasi sempre strapieni a metà pomeriggio nonostante il divieto di buttare i sacchetti durante il giorno. “Finirà presto”, dice un passante sconsolato. E’ solo la fase del rodaggio, penso, spero.
“Ma gli spiedini dove li butto nell’umido o nell’indifferenziato?”. Il dopo pranzo di domenica è diventato più lungo del pranzo. Con i piatti in mano non sempre so dove buttare le cose. Esito troppo davanti ai quattro secchi che ho organizzato occupando un intero mobile della cucina. “Gli spiedini sono di bambù, quindi nella carta”, risponde sicuro mio marito. “Dai, gli spiedini nella carta, non è possibile. Che c’entra il bambù con la carta? E poi sono sporchi…”. Allora prendiamo il pacco degli spiedini puliti per capire la composizione merceologica. Ahinoi, non c’è scritto niente di utile. La nostra discussione si ingarbuglia e i bambini hanno preso gli spiedini – sporchi – utilizzandoli come armi improprie. Glieli strappo di mano e li metto al sicuro. In attesa di capire dove buttarli. Mercoledì, leggo nel mio cartoncino– breviario: raccolta carta. Allora preparo la mia bustona di giornali ed esco. Niente. Nessuna traccia di contenitori bianchi in via Ferrarecce. Buongiorno professoressa, sono quasi arrivata a scuola e io cammino sballottolando la busta al fianco. Mi ferma il vicepreside per discutere di una questione, all’angolo della strada. Io faccio di tutto per nascondere l’imbarazzante ingombro. Lo metto dietro la spalla e parlo con indifferenza. Spio negli androni dei palazzi e non vedo nessun raccoglitore bianco, nessuna busta di carta che possa fare compagnia alla mia. Entro a scuola. Le bidelle al solito mi salutano festanti. Sono lì apposta per darci un po’ di buon umore. “Ma dov’è il contenitore della carta?” “Date qua, date a me…”. Il bidello mi strappa il malloppo di mano e si dirige verso l’uscita. Alla volta del bidone verde. “Noooo, la busta no”. “Per una volta, non fa niente professoressa”. Ho quasi le lacrime agli occhi. Entro nel cortile e trovo il cestone bianco. Torno indietro correndo, sperando di farcela a recuperare il maltolto. “Professorè, ma anche in quel bidone la roba si butta tutta insieme”. Dopo una settimana sono stanca, il mio ottimismo vacilla. Ma continuo ad essere tenace: ho capito che la raccolta differenziata è strettamente legata all’educazione. E come tale richiede tempo. Molto tempo. Spero solo, nel frattempo, di ricordare dove cavolo ho messo gli spiedini usati.


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