metti un supercervello in classe. a caserta
La notizia della settimana: “Un ragazzo casertano nel club mondiale dei “super cervelli”.
“Al liceo era il classico alunno di cui il professore dice: “è molto intelligente ma svogliato, potrebbe fare di più”. Stop. Fermiamoci all’incpit di questo articolo sul Corriere del Mezzogiorno del 22 ottobre. C’è un alunno svogliato, di cui si riconosce l’intelligenza che dopo il liceo ha modo finalmente di trovare se stesso.
E di divenire un super cervello. Quante volte è accaduto nella storia della scuola? Tantissime. La scuola, vista dai super cervelli è una splendida occasione mancata, un luogo dove esprimersi è una sofferenza. Dove si è costretti alla medietà. Questo è il destino di molti alunni.
E, per quanto ho modo di vedere, è anche il destino di molti insegnanti, costretti essi stessi a non esprimersi per come vorrebbero, per come potrebbero. Capita spesso, più di quanto ci si aspetti.
Anni di studio, di passioni, di relazioni forti e intense con i libri, che poi si riducono ad una manciata di minuti di lezione, interrotte da bidelli che entrano con una circolare, alunni con le loro battutine sagaci, sguardi persi nel vuoto. Il professore sta “traducendo” ore di studio di Leopardi in una stringata spiegazione sull’Infinito. Traduce, ma al contempo tradisce il proprio sapere. Magari ha voglia di fare una lezione intensa, più complessa, ricca di rimandi testuali, invece…
Invece è proprio questa la natura dell’insegnamento: imparare a saper porgere. Quel sapere,piccolo grande o immenso che ciascun insegnante ha, deve essere ritagliato su misura della classe. Come le figurine dei vestitini che si posano sulle bambole di carta. Insegnare significa far crescere, mica travasare contenuti. Ma è vero anche che l’insegnante migliore sa far crescere meglio gli alunni. Come i bravi giardinieri che riescono sempre a far prendere le piante, ad indovinare le posizioni giuste, la qualità del terreno, la giusta esposizione luce e ombra, l’acqua di cui necessitano. Altro che figurine di vestiti di carta. Insegnare ha a che fare con la vita. Lo sappiamo, solo che raramente ci fermiamo a pensarci su.
Sin qui gli insegnanti. Che dalla cattedra guardano gli alunni. E vedono alcuni bravissimi, altri meno bravi, altri che proprio non capisci che ci fanno lì a pochi metri da te. Però bastano tre anni di carriera, massimo cinque, per sapere che il percorso che va dai banchi al futuro non è affatto lineare. Com’è quel detto? “Per quanto ti svegli presto, il destino si è alzato sempre un’ora prima di te”. Basta una delusione amorosa e la studentessa modello finito il liceo si perde e molla tutto, il ragazzino svogliato trova gli amici giusti all’università e procede come un razzo. Fin qui la fatalità. Poi c’è quell’alchimia che si crea tra noi e il mondo che gira intorno. Ci sono studenti che seguiti giorno dopo giorno rendono bene ma lasciati a se stessi, buttati in un’aula da cento persone, non sono capaci di organizzarsi, di gestire i propri impegni, gli mancano gli apprezzamenti quotidiani e non fanno neanche un esame. E altri che a lavoro si rivelano più capaci che in classe. In mezzo c’è la fitta schiera dei medi, i sei più, sei e mezzo, mai brillanti ma mai scadenti che procedono diritti per la loro strada e vanno lontano. Non più lontano degli altri, ma comunque arrivano dove avevano deciso di arrivare.
Davvero troppo complesso, il rapporto tra presente scolastico e futuro nella vita. Di certo c’è che la realtà in classe va vissuta giorno dopo giorno. L’insegnante è spesso fallace nel formulare i giudizi. Ha bisogno delle performance: deve riempire la casellina del registro con un numero. Non gliene importa un fico secco se i manuali di psicologia dicono che l’ozio è produttivo. Un alunno distratto crea panico. Bisogna chiamare i genitori, scrivere una nota, due, tre. Bisogna impegnarsi di più. Soprattutto se si ha l’intelligenza e si è svogliati. E soprattutto niente distrazione. Niente fantasticheria, niente fughe nel mondo della fantasia.
Un giorno, in un istituto cittadino , può essere successo o può ancora succedere qualcosa di simile:
“Dovete studiare Leopardi, intima la prof di italiano. Paragrafo 3 del Capitolo 2. Leopardi e i piaceri dell’infinito. Sottolineate: l’immaginazione è la più grande delle facoltà umane. Dalla immaginazione nasce la poesia. Leopardi in questo passo dello Zibaldone ci sta conducendo nel cuore della creazione artistica… Avete capito?”. Un alunno nel frattempo guarda fuori dalla finestra. “Concentrati. Dico a te al terzo banco! Sempre con la testa tra le nuvole. Noi qui stiamo lavorando”. Lo studente sembra atterrare in classe. La prof gli intima di prendere il quaderno: “Scrivi: Per il Leopardi l’immaginazione è la prima fonte della felicità umana”. Il ragazzo, dopo un tempo che alla prof sembra interminabile, prende il quaderno e scrive la frase del poeta: “L’immaginazione è la prima fonte della felicità umana”. La sta rileggendo, mal a prof è esasperata: “Lunedì accompagnato dai genitori” dice con voce stridula. Cos’altro può fare? I(l lunedì successivo lo studente non si presenta, e nemmeno i suoi genitori. L’avevano accompagnato ad una gara di supercervelloni e la vince. Ma tutto questo la prof lo leggerà molti anni dopo sul giornale).
“Al liceo era il classico alunno di cui il professore dice: “è molto intelligente ma svogliato, potrebbe fare di più”. Stop. Fermiamoci all’incpit di questo articolo sul Corriere del Mezzogiorno del 22 ottobre. C’è un alunno svogliato, di cui si riconosce l’intelligenza che dopo il liceo ha modo finalmente di trovare se stesso.
E di divenire un super cervello. Quante volte è accaduto nella storia della scuola? Tantissime. La scuola, vista dai super cervelli è una splendida occasione mancata, un luogo dove esprimersi è una sofferenza. Dove si è costretti alla medietà. Questo è il destino di molti alunni.
E, per quanto ho modo di vedere, è anche il destino di molti insegnanti, costretti essi stessi a non esprimersi per come vorrebbero, per come potrebbero. Capita spesso, più di quanto ci si aspetti.
Anni di studio, di passioni, di relazioni forti e intense con i libri, che poi si riducono ad una manciata di minuti di lezione, interrotte da bidelli che entrano con una circolare, alunni con le loro battutine sagaci, sguardi persi nel vuoto. Il professore sta “traducendo” ore di studio di Leopardi in una stringata spiegazione sull’Infinito. Traduce, ma al contempo tradisce il proprio sapere. Magari ha voglia di fare una lezione intensa, più complessa, ricca di rimandi testuali, invece…
Invece è proprio questa la natura dell’insegnamento: imparare a saper porgere. Quel sapere,piccolo grande o immenso che ciascun insegnante ha, deve essere ritagliato su misura della classe. Come le figurine dei vestitini che si posano sulle bambole di carta. Insegnare significa far crescere, mica travasare contenuti. Ma è vero anche che l’insegnante migliore sa far crescere meglio gli alunni. Come i bravi giardinieri che riescono sempre a far prendere le piante, ad indovinare le posizioni giuste, la qualità del terreno, la giusta esposizione luce e ombra, l’acqua di cui necessitano. Altro che figurine di vestiti di carta. Insegnare ha a che fare con la vita. Lo sappiamo, solo che raramente ci fermiamo a pensarci su.
Sin qui gli insegnanti. Che dalla cattedra guardano gli alunni. E vedono alcuni bravissimi, altri meno bravi, altri che proprio non capisci che ci fanno lì a pochi metri da te. Però bastano tre anni di carriera, massimo cinque, per sapere che il percorso che va dai banchi al futuro non è affatto lineare. Com’è quel detto? “Per quanto ti svegli presto, il destino si è alzato sempre un’ora prima di te”. Basta una delusione amorosa e la studentessa modello finito il liceo si perde e molla tutto, il ragazzino svogliato trova gli amici giusti all’università e procede come un razzo. Fin qui la fatalità. Poi c’è quell’alchimia che si crea tra noi e il mondo che gira intorno. Ci sono studenti che seguiti giorno dopo giorno rendono bene ma lasciati a se stessi, buttati in un’aula da cento persone, non sono capaci di organizzarsi, di gestire i propri impegni, gli mancano gli apprezzamenti quotidiani e non fanno neanche un esame. E altri che a lavoro si rivelano più capaci che in classe. In mezzo c’è la fitta schiera dei medi, i sei più, sei e mezzo, mai brillanti ma mai scadenti che procedono diritti per la loro strada e vanno lontano. Non più lontano degli altri, ma comunque arrivano dove avevano deciso di arrivare.
Davvero troppo complesso, il rapporto tra presente scolastico e futuro nella vita. Di certo c’è che la realtà in classe va vissuta giorno dopo giorno. L’insegnante è spesso fallace nel formulare i giudizi. Ha bisogno delle performance: deve riempire la casellina del registro con un numero. Non gliene importa un fico secco se i manuali di psicologia dicono che l’ozio è produttivo. Un alunno distratto crea panico. Bisogna chiamare i genitori, scrivere una nota, due, tre. Bisogna impegnarsi di più. Soprattutto se si ha l’intelligenza e si è svogliati. E soprattutto niente distrazione. Niente fantasticheria, niente fughe nel mondo della fantasia.
Un giorno, in un istituto cittadino , può essere successo o può ancora succedere qualcosa di simile:
“Dovete studiare Leopardi, intima la prof di italiano. Paragrafo 3 del Capitolo 2. Leopardi e i piaceri dell’infinito. Sottolineate: l’immaginazione è la più grande delle facoltà umane. Dalla immaginazione nasce la poesia. Leopardi in questo passo dello Zibaldone ci sta conducendo nel cuore della creazione artistica… Avete capito?”. Un alunno nel frattempo guarda fuori dalla finestra. “Concentrati. Dico a te al terzo banco! Sempre con la testa tra le nuvole. Noi qui stiamo lavorando”. Lo studente sembra atterrare in classe. La prof gli intima di prendere il quaderno: “Scrivi: Per il Leopardi l’immaginazione è la prima fonte della felicità umana”. Il ragazzo, dopo un tempo che alla prof sembra interminabile, prende il quaderno e scrive la frase del poeta: “L’immaginazione è la prima fonte della felicità umana”. La sta rileggendo, mal a prof è esasperata: “Lunedì accompagnato dai genitori” dice con voce stridula. Cos’altro può fare? I(l lunedì successivo lo studente non si presenta, e nemmeno i suoi genitori. L’avevano accompagnato ad una gara di supercervelloni e la vince. Ma tutto questo la prof lo leggerà molti anni dopo sul giornale).