la strage degli studenti in germania... qui, da noi
Dietro le quinte. Che poi sarebbe dietro il pc. Svelo come nascono gli articoli che scrivo qui e sovente finiscono poi in una rubrica intitolata Terza traccia della rivista Il caffè. Partendo dal presupposto di avere un direttore very friendly, che non chiede mai e si fida – chissà se fa bene o male – dei suoi collaboratori.
Alcuni pezzi nascono sotto la spinta di eventi – un episodio mi stupisce, mi sconvolge, mi travolge o stravolge - torno a casa e scrivo. La realtà urla e chiede di essere raccontata. Ci sono le parole, i personaggi, la storia. Chi scrive deve solo ricombinare gli elementi. Un po’ come rimettere a posto una vetrinetta di chincaglierie e renderla presentabile. Talvolta non c’è neppure bisogno di questo, le storie bisogna porgerle così come sono state trovate, rubo l’espressione a Verga: pei viottoli dei campi. Dovrebbe essere questa l’essenza della scrittura più prossima alla realtà quale quella giornalistica: sunt lacrimae rerum. Questo è De Sanctis, che ai letterati ammoniva: togliete le lacrime vostre - ce l’aveva con i romantic(on)i da strapazzo - e dateci le lacrime delle cose. Più semplicemente: devono parlare i fatti.
Seconda opportunità: non succede niente. La routine quotidiana scorre come sempre. Piccoli moti sussultori, sorrisi mattutini, stanchezze da sesta ora del venerdì e del sabato. E allora è un po’ come staccarsi le crosticine da ragazzini. Devi tirare fuori qualcosa. Guardare qualcosa che non si vede. E costruirci intorno un pensiero più ampio, una riflessione che abbia senso. Quando non ci sono i fatti, c’è la scrittura. Che si inerpica sulle strade meno battute. Diciamo la verità: a volte articoli così sono di una noia mortale. Altre volte invece servono a fare luce sugli aspetti nascosti. E per chi scrive, superato il primo momento di panico, sono indispensabili per comprendere che davvero, credo sia Mallarmè, tutto il mondo è fatto per finire in un libro. La vita è terribilmente interessante che deve essere raccontata. Oppure, al contrario, è talmente uggiosa che la cosa migliore è rifugiarsi nelle parole scritte. In ogni caso: parole e mondo sono inscindibili. Si tratti di un libro, di un articolo di giornale, di una pagina web.
Terza possibilità di scrittura: non c’è nessun evento, non è successo niente a scuola, però camminando arrivano le idee. Ho un paio di itinerari di tre chilometri, giuro: calcolati con il contapassi!, e quando ho bisogno di trovare ispirazione mi metto in moto. In genere funziona: una scritta sul muro, un gattino seduto su un sedile di auto posata in giardino (giuro di nuovo: proprio ieri, ma dietro casa mia), un ex alunno che incontro e mi racconta una storia. Torno a casa e scrivo. Il concetto è: lasciarsi sfiorare dagli eventi, un po’ come quando si cammina accarezzando le foglie delle siepi. Tra le dita resta sempre qualcosa.
Quarta, e per adesso ultima possibilità. I fatti ci sono, in primo piano nelle cronache, però tu che scrivi non riesci a sintonizzarti su quello che ti circonda. Non ci riesci perché una storia ti fa venire il mal di pancia. Perché non è nelle tue corde. Perché diresti delle cose così sgradevoli che non è il caso di parlarne. E ti forzi un po’. Magari si scassa il catenaccio dei pregiudizi e riesci ad entrare in un luogo a te sconosciuto.
la scorsa settimana è accaduto questo: una scuola, lontana ma non troppo, da noi, un ragazzo, una pistola, quindici morti ammazzati più lui sedici, una chat in cui nottetempo aveva annunciato i suoi intenti.
Ho provato a vedere i video che sbucano da tutti i siti internet, so che devo leggere un articolo di commento di uno dei miei giornalisti preferiti, potrei gironzolare alla ricerca di approfondimenti, farmi un’idea e scrivere. Non ce la faccio. Non ci riesco. Si tratta di affacciarsi su un baratro. E vedere sotto: la solitudine spaventosa di un adolescente (moltiplicata per tutte le solitudini che incontro negli occhi dei miei studenti), il dolore dei sopravvissuti – gli altri studenti, i professori, i genitori – che a sua volta genererà altro dolore, altra solitudine.
Se fosse successo in Italia, la Gelmini l’indomani si sarebbe alzata e avrebbe annunciato subito l’installazione sulla lavagna luminosa di corsi di educazione e valorizzazione alla socialità (senza spiegare cosa dovevamo fare concretamente in classe). Invece è successo in Germania, il padre del ragazzino aveva le armi, dunque gran parte delle letture del fenomeno possono essere ricondotte a quel problema, non solo alla solitudine. Noi intanto continuiamo a occuparci del voto in condotta, dei bagni divelti, delle sigarette per terra. Dovremmo poter dire: per fortuna.
Ma neanche questo mi va di scrivere.
Alcuni pezzi nascono sotto la spinta di eventi – un episodio mi stupisce, mi sconvolge, mi travolge o stravolge - torno a casa e scrivo. La realtà urla e chiede di essere raccontata. Ci sono le parole, i personaggi, la storia. Chi scrive deve solo ricombinare gli elementi. Un po’ come rimettere a posto una vetrinetta di chincaglierie e renderla presentabile. Talvolta non c’è neppure bisogno di questo, le storie bisogna porgerle così come sono state trovate, rubo l’espressione a Verga: pei viottoli dei campi. Dovrebbe essere questa l’essenza della scrittura più prossima alla realtà quale quella giornalistica: sunt lacrimae rerum. Questo è De Sanctis, che ai letterati ammoniva: togliete le lacrime vostre - ce l’aveva con i romantic(on)i da strapazzo - e dateci le lacrime delle cose. Più semplicemente: devono parlare i fatti.
Seconda opportunità: non succede niente. La routine quotidiana scorre come sempre. Piccoli moti sussultori, sorrisi mattutini, stanchezze da sesta ora del venerdì e del sabato. E allora è un po’ come staccarsi le crosticine da ragazzini. Devi tirare fuori qualcosa. Guardare qualcosa che non si vede. E costruirci intorno un pensiero più ampio, una riflessione che abbia senso. Quando non ci sono i fatti, c’è la scrittura. Che si inerpica sulle strade meno battute. Diciamo la verità: a volte articoli così sono di una noia mortale. Altre volte invece servono a fare luce sugli aspetti nascosti. E per chi scrive, superato il primo momento di panico, sono indispensabili per comprendere che davvero, credo sia Mallarmè, tutto il mondo è fatto per finire in un libro. La vita è terribilmente interessante che deve essere raccontata. Oppure, al contrario, è talmente uggiosa che la cosa migliore è rifugiarsi nelle parole scritte. In ogni caso: parole e mondo sono inscindibili. Si tratti di un libro, di un articolo di giornale, di una pagina web.
Terza possibilità di scrittura: non c’è nessun evento, non è successo niente a scuola, però camminando arrivano le idee. Ho un paio di itinerari di tre chilometri, giuro: calcolati con il contapassi!, e quando ho bisogno di trovare ispirazione mi metto in moto. In genere funziona: una scritta sul muro, un gattino seduto su un sedile di auto posata in giardino (giuro di nuovo: proprio ieri, ma dietro casa mia), un ex alunno che incontro e mi racconta una storia. Torno a casa e scrivo. Il concetto è: lasciarsi sfiorare dagli eventi, un po’ come quando si cammina accarezzando le foglie delle siepi. Tra le dita resta sempre qualcosa.
Quarta, e per adesso ultima possibilità. I fatti ci sono, in primo piano nelle cronache, però tu che scrivi non riesci a sintonizzarti su quello che ti circonda. Non ci riesci perché una storia ti fa venire il mal di pancia. Perché non è nelle tue corde. Perché diresti delle cose così sgradevoli che non è il caso di parlarne. E ti forzi un po’. Magari si scassa il catenaccio dei pregiudizi e riesci ad entrare in un luogo a te sconosciuto.
la scorsa settimana è accaduto questo: una scuola, lontana ma non troppo, da noi, un ragazzo, una pistola, quindici morti ammazzati più lui sedici, una chat in cui nottetempo aveva annunciato i suoi intenti.
Ho provato a vedere i video che sbucano da tutti i siti internet, so che devo leggere un articolo di commento di uno dei miei giornalisti preferiti, potrei gironzolare alla ricerca di approfondimenti, farmi un’idea e scrivere. Non ce la faccio. Non ci riesco. Si tratta di affacciarsi su un baratro. E vedere sotto: la solitudine spaventosa di un adolescente (moltiplicata per tutte le solitudini che incontro negli occhi dei miei studenti), il dolore dei sopravvissuti – gli altri studenti, i professori, i genitori – che a sua volta genererà altro dolore, altra solitudine.
Se fosse successo in Italia, la Gelmini l’indomani si sarebbe alzata e avrebbe annunciato subito l’installazione sulla lavagna luminosa di corsi di educazione e valorizzazione alla socialità (senza spiegare cosa dovevamo fare concretamente in classe). Invece è successo in Germania, il padre del ragazzino aveva le armi, dunque gran parte delle letture del fenomeno possono essere ricondotte a quel problema, non solo alla solitudine. Noi intanto continuiamo a occuparci del voto in condotta, dei bagni divelti, delle sigarette per terra. Dovremmo poter dire: per fortuna.
Ma neanche questo mi va di scrivere.