Scritto sui banchi

26 gennaio 2006

istruzioni per diventare insegnanti


In treno. Cristina e Mariangela con libri e quaderno per appunti. Un po’ arrabbiate un po’ annoiate. Ad attenderle, come tutti i pomeriggi, una lezione della Sicsi, la scuola di specializzazione per conseguire l’abilitazione all’insegnamento. Due anni. Due anni ancora, dopo la laurea, tra lezioni all’università, tirocini, esami e tesine da consegnare. Pomeriggi da recluse in una bolla di nozioni farraginose e inutili. Dicono.
“Perché nessun ragazzo sogna di diventare insegnante?” mi ha chiesto l’altro giorno un amico preside. Ho azzardato qualche risposta. Credo che la domanda vada girata ai diretti interessati: perché è più interessante fare (pensare di fare) il magistrato, la biologa, il dottore, la ballerina piuttosto che l’insegnante? Oppure si può porre l’interrogativo a quelli che insegnano: che cosa ti sarebbe piaciuto fare da grande? Prima, prima di infilare la strada che ti ha portato diritto (o quasi) in questa aula?
Si sa, o perlomeno accade abbastanza spesso, i sogni prendono strade diverse dalle nostre, si trasformano, ci trasformano, si rinventano. E a quel punto qualcuno decide di fare anche il professore o la professoressa.
Facile a dirsi. Basta trovare una bella scuola privata, di quelle che danno punteggio, un po’ di soldi per pagarsi le spese di benzina e le tasse, un paio di anni di lavoro gratis e il gioco è fatto. Davvero un gioco: i migliori anni della nostra vita spesi dentro le aule di qualche sperduto istituto scolastico sono sufficienti a maturare un punteggio decente per essere chiamati dalle scuole statali.
Seconda alternativa: le Sicsi. Prove di selezione in differenti università italiane (con una media di cinquanta posti su ottocento, novecento domande), tenacia nel ritentare l’esperienza l’anno accademico successivo e dopo qualche tentativo, l’abilitazione è bella e conseguita. Trenta punti in graduatoria. (E gli insegnanti abilitati che fanno il ricorso al Tar e mettono in discussione pure questi punti). Una guerra tra poveri, insomma. Tra poveri aspiranti prof.
Il libro di Cristina ha la copertina arancione e rossa, riconosco la casa editrice. Ha una distribuzione nulla, mi chiedo come ha trovato quel libro. Conosco anche l’autore, ho studiato anch’io sui suoi testi. Così attacco bottone. “E’ uno schifo, dice. Tutta la Sicsi è fatta per vendere i libri che scrivono i docenti. Non si possono usare fotocopie né libri prestati. All’esame il prof sigla il libro. Così sono sicuri che ogni studente ne compra uno.”
La copia che ha con sé è della cugina. Mi mostra la grafia del prof che ha scritto nome della studentessa e numero di matricola. Lei ha dovuto ordinare la sua. “Abbiamo pagato 2000 euro per frequentare, cosa credono che ci perdiamo per 15 euro di libro?”. C’è di che essere indignati. “Ma almeno le lezioni sono utili, interessanti?” chiedo. “Le lezioni sono brevi, chiosa l’amica. Fanno risultare quattro ore, a stento ne facciamo due più la pausa”.
Mi chiedo che insegnanti saranno Cristina e Mariangela, quando avranno terminato la scuola di specializzazione, questa scuola di specializzazione. Cosa risponderanno se mai un giorno qualcuno chiederà loro: cosa ti sarebbe piaciuto fare da grande?

18 gennaio 2006

Chissà se lo sa


“I professori non ci chiedevano mai se eravamo feliciiii. Chissà se lo saaa” .
Sono sicura, lo so, è Andrea, che canta non casualmente fuori la porta dell’aula dove sto facendo lezione. Si gioca persino la carta di Luca Carboni: vuole fare effetto sul mio cuore duro di prof a fine quadrimestre. Vuole colpevolizzarmi. Per i suoi due pomeriggi passati a studiare italiano invece che andersene in giro. Non gli chiediamo mai se sono felici. E lo dice con un’intonazione straziante. Non sappiamo ascoltarli, ignoriamo i loro problemi, le loro vite. Quasi quasi ci casco. Sensi di colpa da insegnante che adesso pensa solo ai voti e agli scrutini già fissati per i primi di febbraio. “Ma Silvia lo saaaa”.
“Ecco, te lo chiedo io: “A Silvia” la sai, alla professoressa?”. Se non altro Andrea è simpatico: ho aperto la porta e l’ho trovato spiaccicato contro il muro del corridoio che continuava a canticchiare e verseggiare. “Buongiorno professoressa, chi Silvia? No, quella è la canzone”. “Ho capito che è la canzone, ma non possiamo ragionarci meglio su Silvia e su qualche altra poesia di Leopardi, magari in classe ?”
“Perché professoressa?” Come perché? Perché devi essere interrogato, perché tra dieci giorni finisce il quadrimestre, perché quest’anno hai gli esami.
Sembra gli stia dicendo cose assolutamente improbabili, per nulla interessanti o riguardanti la sua vita. Nel suo sguardo, nel suo sorriso che non cede neanche di un millimetro per tutto il tempo della nostra conversazione, non ci leggo la sfida o il rifiuto. Semplicemente lui crede che questo voto sia un problema più suo che mio. Perché Andrea con la scuola ha chiuso i conti da un paio d’anni. Più esattamente: “si è sfastidiato”. E ogni domanda che gli porgo – non ti chiedo se sei felice, ma mi piacerebbe tanto capire quando, perché tu e la scuola avete chiuso la partita - ha come risposta un’alzata di spalle. Allora basta con le questioni esistenziali. “ Quand’è che vuoi essere interrogato?”.
“Io questo vi volevo dire, professoressa. Ho troppo arretrato, di tutte le materie. Posso avere una proroga? Lo sapete, in classe sto attento, mi piace la letteratura. E’a studiare che non ce la faccio”.
Alla fine ci accordiamo per una dilazione: tutto il programma diviso in due interrogazioni, una per settimana. Ora deve ritornare in classe, il prof della sua ora si sarà pure arrabbiato. Svolta l’angolo e la voce continua a spandersi nel corridoio: “chissà se lo saaaaa”.
Sono ancora stremata da questa conversazione e mi raggiunge Amalia: “Professoressa, quando posso venire per l’interrogazione da otto?”

12 gennaio 2006

cose da dimenticare



C’è un amore nella sabbia
Un amore che vorrei
Un amore che non cerco
Perché poi lo perderei.

C’è un amore alla finestra
Tra le stelle e il marciapiede
Non è in cerca di promesse
E ti dà quello che chiede.

Cose che dimentico
Cose che dimentico
Sono cose che dimentico.

C’è un amore che si incendia
Quando appena lo conosci
Un’identica fortuna
Da gridare a due voci.

C’è un termometro del cuore
Che non rispettiamo mai
Un avviso di dolore
Un sentiero in mezzo ai guai.

Cose che dimentico
Sono cose che dimentico.

Mi piace ricordarlo così, Fabrizio De Andrè. Sette anni dopo. Adesso che la memoria delle sue parole si fa più densa e intensa. Più vicina alla sua musica, alla sua voce.
Cose che dimentico, canta. Lui, che non ha mai dimenticato gli amori sbagliati, le donne sbagliate, i figli sbagliati. A caccia di dubbi e di errori custoditi dentro il destino. Un destino che vuoi correggere e al massimo ti riesce di portarlo in mano, come un giornale. Sempre in cammino, De Andrè, tra vicoli e porti, nel vento delle città marine o nel buio di giostre in disuso. In compagnia delle incertezze, delle domande senza risposta. In direzione ostinata, e contraria.
A suo modo, un maestro.

(La foto: marzo 1997, a Bari, nel camerino del Teatro Team.)


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