istruzioni per diventare insegnanti

In treno. Cristina e Mariangela con libri e quaderno per appunti. Un po’ arrabbiate un po’ annoiate. Ad attenderle, come tutti i pomeriggi, una lezione della Sicsi, la scuola di specializzazione per conseguire l’abilitazione all’insegnamento. Due anni. Due anni ancora, dopo la laurea, tra lezioni all’università, tirocini, esami e tesine da consegnare. Pomeriggi da recluse in una bolla di nozioni farraginose e inutili. Dicono.
“Perché nessun ragazzo sogna di diventare insegnante?” mi ha chiesto l’altro giorno un amico preside. Ho azzardato qualche risposta. Credo che la domanda vada girata ai diretti interessati: perché è più interessante fare (pensare di fare) il magistrato, la biologa, il dottore, la ballerina piuttosto che l’insegnante? Oppure si può porre l’interrogativo a quelli che insegnano: che cosa ti sarebbe piaciuto fare da grande? Prima, prima di infilare la strada che ti ha portato diritto (o quasi) in questa aula?
Si sa, o perlomeno accade abbastanza spesso, i sogni prendono strade diverse dalle nostre, si trasformano, ci trasformano, si rinventano. E a quel punto qualcuno decide di fare anche il professore o la professoressa.
Facile a dirsi. Basta trovare una bella scuola privata, di quelle che danno punteggio, un po’ di soldi per pagarsi le spese di benzina e le tasse, un paio di anni di lavoro gratis e il gioco è fatto. Davvero un gioco: i migliori anni della nostra vita spesi dentro le aule di qualche sperduto istituto scolastico sono sufficienti a maturare un punteggio decente per essere chiamati dalle scuole statali.
Seconda alternativa: le Sicsi. Prove di selezione in differenti università italiane (con una media di cinquanta posti su ottocento, novecento domande), tenacia nel ritentare l’esperienza l’anno accademico successivo e dopo qualche tentativo, l’abilitazione è bella e conseguita. Trenta punti in graduatoria. (E gli insegnanti abilitati che fanno il ricorso al Tar e mettono in discussione pure questi punti). Una guerra tra poveri, insomma. Tra poveri aspiranti prof.
Il libro di Cristina ha la copertina arancione e rossa, riconosco la casa editrice. Ha una distribuzione nulla, mi chiedo come ha trovato quel libro. Conosco anche l’autore, ho studiato anch’io sui suoi testi. Così attacco bottone. “E’ uno schifo, dice. Tutta la Sicsi è fatta per vendere i libri che scrivono i docenti. Non si possono usare fotocopie né libri prestati. All’esame il prof sigla il libro. Così sono sicuri che ogni studente ne compra uno.”
La copia che ha con sé è della cugina. Mi mostra la grafia del prof che ha scritto nome della studentessa e numero di matricola. Lei ha dovuto ordinare la sua. “Abbiamo pagato 2000 euro per frequentare, cosa credono che ci perdiamo per 15 euro di libro?”. C’è di che essere indignati. “Ma almeno le lezioni sono utili, interessanti?” chiedo. “Le lezioni sono brevi, chiosa l’amica. Fanno risultare quattro ore, a stento ne facciamo due più la pausa”.
Mi chiedo che insegnanti saranno Cristina e Mariangela, quando avranno terminato la scuola di specializzazione, questa scuola di specializzazione. Cosa risponderanno se mai un giorno qualcuno chiederà loro: cosa ti sarebbe piaciuto fare da grande?