Scritto sui banchi

29 aprile 2007

la ciotola di dragonball


Ce ne sono a decine, nei cortili delle scuole elementari. E poi negli slarghi dei condomini, nelle piazzette e nelle vicinanze delle edicole. I capannelli di bambini che si scambiano le figurine. Pokemon, Dragon Ball, altro che non sono capace di nominare. Non si chiamano neanche più figurine. Sono cards. E costano anche molto. Ci sono ragazzini con mazzi di cento, duecento, trecento figurine-cards. Mostrano, valutano, contrattano, scambiano. Il bottino cambia di giorno in giorno. Ci sarà anche un senso in questi scambi: tipo carte meglio quotate, rare, con attacco e difesa. Ragioni intelligibili agli sguardi esterni. Agli sguardi dei genitori, che stanno lì con le cartelle pesantissime sulle spalle mentre i piccoli trafficano in questo suk che si forma e si sfalda nel volgere di mezz’ora, un’ora. E poi si ricompone il giorno dopo.
Ecco perché i miei figli mi chiedono di comprare ogni giorno le figurine. Per avere, l’indomani, maggiore potere di acquisto e di scambio con i compagni. Non va bene. Non è possibile ogni giorno pagare un obolo alla causa cards-socializzazione-divertimento etc.
Ogni edicola attira sguardi magnetici, innesca capricci, promuove smottamenti e infine cedimenti. Spendo di meno se prendo un taxi per tornare a casa: niente negozi, niente capricci. A caserta non passa mai un taxi! Bisogna chiamarlo. Intanto che fare? Non si può vietare e basta. O meglio: si può, ma non serve molto. Perché poi bisogna tenere duro. E non sempre è facile.

“Maestro, insegnami la verità”. “Prendi la tua ciotola e lavala”. Racconto zen.
Queste storie zen sono tremende. Hanno un senso della sintesi straordinario. Ti fanno capire tutto. O niente. (Tanto poi ci sarà un’altra storia che ti fa spiega che tutto e niente coincidono).
Comunque queste due battute mi lasciano in bilico tra domande e riflessioni per un bel po’. Ribadiscono l’importanza dell’esperienza. Perché la strada per la conoscenza passa attraverso un sapere e un fare che devono essere declinati in prima persona singolare. Perché solo così gli apprendimenti diventano parte di noi.
“Posso comprare un pacchetto?” No, non voglio neanche sentire la domanda. La risposta la confeziono con voce stentorea, come si addice ad una persona esasperata. “Potete avere le figurine solo un giorno alla settimana. E fino ad allora non si compra niente”.
Sul loro viso si spalanca una tristezza senza fine e io ripenso mesta alla ciotola. Quale bisogna lavare la mia o la loro? Alla fine ho capito (sigh!): “Anche mamma non comprerà niente per una settimana, prometto. Solo cose da mangiare. Per il resto rinuncio anch’io a tutte le cose che mi piacciono”. Devo fare esperienza di quello che ho chiesto a loro. Niente, proprio niente. Come loro.
Accidenti! Non sapevo fosse così impegnativo. Passare davanti ad un negozio e ignorarlo, non comprare il settimanale preferito, non ricaricare la scheda del cellulare.
Per questo è più facile essere adulti che bambini. ci prendiamo il privilegio di insegnare senza nemmeno provare ad imparare.
Sabato mattina alle otto siamo già in edicola. Compriamo certo, ma questa settimana abbiamo capito qualcosa in più.

15 aprile 2007

pedagogia in panchina


Lei è una insegnante di vecchio stampo. Di quelle che credono che la cosa più importante sia cambiare, migliorare, crescere. Come? Con lo strumento principale del suo/nostro lavoro: la parola.
Parlare ai ragazzi, spiegare, far pensare. Mica solo Pirandello e Svevo. No: spiegare la vita. Raccontare come si fa ad essere migliori, sempre. Una fede incrollabile nelle parole. Io, che pure le amo le parole, le invidio questa inossidabile fiducia nel potere taumaturgico dei discorsi.
Lui è suo marito, con le parole ci sa fare, è una specie di giocoliere che usa proverbi e massime di saggezza popolare come birilli per lanciare nell’aria di primavera i suoi ragionamenti vorticosi. “L’albero che è storto, storto rimane”. Le sue parole rivelano una sfiducia totale nel potere del cambiamento, della trasformazione. E dunque: a parlare si perde solo tempo.
Discutiamo di cose così, in questo pomeriggio di giardinetti, sulla panchina mentre i miei figli e i loro nipotini corrono sullo scivolo lanciando gridolini di gioia.
Da che parte stare? La signora è una vera e propria amazzone del linguaggio, della pedagogia, dell’insegnamento attraverso il dialogo. Continuo ad ammirarne la forza e la propositività: “Se si vuole qualcosa si ottiene, ma anche se non si ottiene niente, tu almeno il tuo dovere l’hai fatto”, dice lei. E però così ci spostiamo sul pernicioso versante delle prediche, del moralismo, delle coercizioni, blande, ma coercizioni. Chi parla tanto, chi chiede tanto ascolto, non sempre poi è capace di offrirne.
Lui invece mi sembra più sereno, con la sua classificazione botanica degli individui: “ci sono piante sempre verdi che non possono dare fiori, e alberi da frutto che non potranno mai mantenere intatto il loro fogliame. Non si può chiedere a qualcuno di darti qualcosa che non ha”.
Il ragionamento mi sembra più che accettabile. E profondamente rispettoso delle identità di ciascuno. (Non è un insegnante. Anzi, è uno che gli insegnanti - quelli che salgono sempre in cattedra, a scuola, ai giardinetti, in parlamento - non li sopporta proprio). “Ogni capa un tribunale”, conclude secco come un ramo di un albero assolato.
Però questo atteggiamento mi sembra troppo rinunciatario. Perché saremo pure tanti tribunali, ma un comune senso di giustizia bisogna elaborarlo, maturalo.
Nel frattempo i bambini sono scesi dalle giostrine, e al solito, i miei mi hanno chiesto di comprare le figurine. Questa è una cosa che mi piacerebbe poter cambiare. Perché bisogna pagare quotidianamente un dazio al bisogno bulimico di oggetti, che riempiono la casa e occupano i nostri spazi? Faccio un predicozzo o sgancio un euro? Mi tocca procedere, al solito, per tentativi.
(continua)

04 aprile 2007

cintura nera ind'o rion (che si chiama scuola)


Non sapevo niente dell’Aikido, fino a qualche mese fa. Come sempre, ci sono finita dentro sbucando dalle strade laterali che percorro insieme ai libri, grazie ai libri. L’aikido l’ho conosciuto nei libri di Gianrico Carofiglio. Nella trilogia, bellissima, dei casi dell’avvocato Guido Guerrieri, Margherita, una donna inquieta e tormentata come tante (come tutte forse), pratica aikido. Guerrieri è un boxer casalingo e ci sono tanti personaggi che qua e là praticano arti marziali. Non semplici sport, ovviamente, ma percorsi della mente, strade durissime da attraversare per conoscere qualcosa di più. Di se stessi e degli altri: lo studio della via e del perfezionamento della persona. Metafore della vita, in fondo, le arti marziali.

E ho incominciato a incuriosirmi degli alunni, ce ne sono tanti, che le praticano, del colore della cintura che indossano, delle tecniche di combattimento, delle parole che utilizzano e soprattutto del rituale dei gesti. “Nell’aikido non si acquista niente, mi dice un alunno, si perdono delle cose, ci si libera di ciò che disturba, è una via per ritrovare le cose semplici”. Quando si entra si fa un inchino, un saluto allo spazio sacro, il dojo, la sala o il luogo in cui si fa l’allenamento. “Per gli orientali, mi spiega un’amica a cui chiedo maggiori informazioni, lo spazio sacro o spazio protettore è impregnato delle vibrazioni dello spirito delle persone che lì si sfozano di migliorare e che a loro volta sono da queste influenzate”. Uno spazio che diviene sacro nel momento in cui viene scelto e dichiarato dal maestro e dall’allievo. Ci ho pensato a lungo allo spazio sacro, a quello che sono riuscita a capire, e ancora di più ho ripensato alla inflessione con cui i ragazzi pronunciavano la parola maestro. La caricavano di un significato denso e profondo. Assai diversa dal vacuo “professorè” e al modaiolo “prof!” che attraversa i corridoi delle nostre scuole.

Lo spazio sacro. Più ci pensavo e più mi convincevo che gran parte del malessere delle nostre scuole passa attraverso lo spazio, una terra di nessuno, una west land, in cui ognuno passa e lascia i propri segni. E non per sentimento di appartenenza ma in segno di diniego, di rifiuto, di sfregio. Stamattina nell’aula vuota ho preso (e ovviamente conservato) un post it che escalma: “Faciteve o’ crack ind’o rion”. Non lo so se lo compreranno il crack, se era uno scherzo, un invito, una supplica, un incoraggiamento. Ma il post it era lì, indifferente: al via vai di insegnanti che passavano in classe a firmare.

Continuo a esplorare le arti marziali, a indagare altri possibili modi di insegnare. “Dal tema del portamento che viene corretto in ogni allenamento – che si tratti delle forme (kata) o del combattimento vero e proprio (randori) – fino alla cerimonia del saluto (rei), puntuale all’inizio e alla fine della lezione, l’intero insegnamento del judo può essere paragonato a una lezione sulle buone maniere”.

Abbiamo dimenticato questo? Le buone maniere? Cos’altro ci manca in questo spazio che si chiama scuola, che non è sacro ma è ancora l’unico luogo in cui si continua, si deve continuare, ad educare? Nelle mie classi vuote stamattina mancavano gli alunni: hanno anticipato di due giorni le vacanze. Nell’aikido non si può insegnare se non a chi ha voglia di imparare. E c’è un proverbio buddista che recita: “quando l’allievo è pronto, il maestro appare”.

Invece io ero lì, da sola, in compagnia delle loro scritture. E delle mie domande.


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