Scritto sui banchi

29 novembre 2007

un piedibus per pensare

Ho aperto la porta e ho trovato un bambino alla batteria, uno alla tastiera e un altro al microfono, messi insieme non facevano neanche dieci anni. In quel momento ho pensato che se esiste un paradiso doveva essere qualcosa di assai a questa scena. Una sensazione che ancora oggi mi porto dietro, la felicità di vedere bambini felici. Oggi, sono passati oltre quindici anni da quel ricordo, devo riconoscere che forse ero condizionata da tutto l’insieme. Quello era solo uno degli atelier della scuola. Una scuola dell’infanzia. Avevo già visitato l’atelier della ceramica, l’angolo dei travestimenti e dalla finestra si vedeva la giostrina degli uccellini. Ero in uno degli asili di Reggio Emilia, e quello era un viaggio di studio. Studiavo quanto l’ambiente è legato all’apprendimento e alla crescita. Dei bambini, ma anche degli adulti. L’altra sera siamo stati ospitati nel cortile della scuola elementare. Un gruppo di volontari, di insegnanti, di operatori ci stavano illustrando una iniziativa, solo una proposta per ora, poi chissà. Si chiama piedibus. E sullo schermo scorrevano le immagini di bambini che camminavano insieme per andare a scuola, guidati dagli adulti. Un autobus fatto di persone che funziona con il sole e con la pioggia, con giubbini catarifrangenti e con impermeabili colorati. Forse, forse, potrà accadere anche qui. Nel nostro quartiere. Le foto però erano state scattate a Reggio Emilia. Sarà stato questo riferimento geografico a tirarsi dietro il mio ricordo. Il piedibus è una cosa bellissima. Serve a liberare le mamme e i bambini dalle automobili, a diminuire lo smog, a conoscere la città camminando.
Sono intervenuti anche i rappresentanti dell’amministrazione. Anche loro entusiasti. Mi guardavo intorno e sentivo che c’era tanta gente che aveva voglia di camminare, di attraversare la città con nuove forme di partecipazione. C’erano tante insegnanti, tanti genitori, un paio di ragazzini africani che saltellavano per i corridoi, una mia amica brasiliana, ho riconosciuto cadenze diverse che andavano dal nord al sud. Tutti insieme, lungo lo stesso corridoio. Mi sentivo già parte di un piedibus immaginario, di gente che ha voglia di andare lontano. Poi una signora si è fatta avanti. "Dove? Dove può camminare questo piedibus?" ha chiesto ai politici. "Se prima non ci liberate i marciapiedi dalla spazzatura, questi bambini dove mettono i piedi?"
E come nella favola del cigno appiccica, la breccia polemica si è tirata dietro altre rimostranze, altri malcontenti. I conducenti della serata hanno cercato di arginare i discorsi, riconoscendoli giusti, certo, ma farli adesso significava bloccare tutto. Impantanare i buoni propositi, buttarli via. Anche loro in una discarica nel centro della città. Ma se non ora, quando è possibile parlare dei cassonetti strabordanti di roba appostati in ogni angolo?
Sono andata via anch’io poco dopo. Il tempo scaduto. Per strada rovistavo ancora tra i miei studi di pedagogia e psicologia. Mi veniva in mente uno che analizzava le facce di quanti andavano in auto e di quelli che camminavano a piedi. Le prime erano meno mobili, avevano una grammatica espressiva ridotta a cinque, sei espressioni, solitamente legate all’insofferenza o all’isolamento. Le seconde erano varie, sempre cangianti, pronte a offrire differenti segnali di accoglienza, di riconoscimento, di saluto. Adesso vorrei saperne di più di quella ricerca, dovrei aprire vecchi falconi di riviste. Ma sono ancora per strada che cammino, incrociando persone che si mettono la sciarpa davanti alla bocca quando passano davanti alle collinette della spazzatura a pochi metri da casa. Camminare fa bene, placa l’inquietudine. Vado a prendere i bambini che sono stati dagli amichetti a giocare. Rientriamo a casa e lo formiamo noi un piccolo piedibus, che fa slalom tra i cassonetti della spazzatura. Camminiamo parliamo camminiamo ci fermiamo camminiamo ridiamo camminiamo pensiamo camminiamo…

14 novembre 2007

chi ri-cerca trova... un salmone

“Conoscere”. Si chiamava così l’enciclopedia, bei volumi con la copertina in brossura nera, che abitava nelle case di bambini e bambine una ventina di anni fa. Piena di immagini e di parole, “Conoscere” conteneva un universo intero che prometteva di essere agilmente squadernato e illustrato. Se solo ci si decideva ad aprirli quei libroni incastrati nelle librerie, sfondo perfetto di bomboniere e sopramobili di varia provenienza.
Altri bambini e altre bambine avevano I quindici, meno austeri nell’aspetto e più sbarazzini nei contenuti. C’era un volume persino dedicato ai lavoretti da fare in casa, e in genere era il più sgualcito di tutti. Avere l’uno o l’altro, Conoscere o I quindici, dipendeva dalla bravura dei venditori porta a porta che spergiuravano la necessità di offrire prima di tutto il sapere ai propri figli, nonché la possibilità di pagarlo in comode rate.
Poi è stata la volta di Encarta, la prima enciclopedia per i computer, e conoscere è diventato un verbo facile e a portata di mouse. Tu cerchi, il computer trova, la stampante mette su carta. Neanche la fatica di copiare la ricerca. A scuola si porta direttamente il foglio fresco d’inchiostro.
La ricerca, già. Perché questo solo è lo scopo primario delle enciclopedie, nella maggior parte dei casi: esaudire la richiesta di un insegnante piuttosto che rispondere ad un desiderio intimo di muoversi tra le parole, le informazioni, i saperi, appunto.
Adesso c’è Internet, e le vie delle ricerche sono diventate più democratiche, più economiche e (apparentemente) più semplici.
Il salmone: novemila voci per la parola salmone. Accidenti! Apro le prime pagine a caso e mi sposto da un manuale scientifico in cui mi vengono raccontate le migrazioni del pesce al sito in cui mi viene mostrata la ricetta del salmone al forno (buonissima, per altro). Giro ancora un po’, mi ritrovo in un acquario e poi in un manuale di pesca. Non mi resta che tornare all’inizio, in un dizionario elettronico e fare un sunto per mio figlio.
Infatti è lui che deve fare la ricerca, ma non è ancora capace di navigare da solo. Dunque...
Il giorno dopo un’amica mi chiede di cercare i batteri su Internet. E’ una ricerca per i suoi figli, che però non hanno il computer in casa e nessuno tra i libri che ha consultato parla di batteri. E così mi addentro tra batteri a bastoncini, a cocchi, a spirale. Ma non sono in grado di sintetizzare i termini scientifici, così gli stampo sette pagine (sette!) e gliele consegno senza neanche guardarle sino in fondo.

A che servono allora queste ricerche? Considerando soprattutto che i libri di testo, anche di scuola elementare, hanno anch’essi un’ impostazione enciclopedica e sono composti persino da più volumi.

Il verbo ricercare è bellissimo. Dà l’idea di quello che dovrebbe essere l’apprendimento: una continua esplorazione, un viaggio, anche picaresco, dentro le storie, i fatti, gli oggetti, i concetti del mondo. Ma la ricerca, in che rapporto è con questo percorso? E’ un modo di essere, segna il passo, oppure è soltanto un intoppo, un arresto forzato persino difficile da superare?

“Fate la ricerca sul Rinascimento”. Ho assegnato questo compito ai miei studenti. E mentre io mi imbattevo nello streptococco loro si immergevano nelle volute fantastiche di quel secolo. Il giorno dopo però il risultato è stato catastrofico per entrambi. Io ignoravo ancora gran parte del meccanismo delle membrane unicellulari e loro non sapevano creare raccordi tra il Rinascimento e Michelangelo o Ariosto (che erano citati insieme ad una miriade di altri nomi).

Un articolo su “Le scienze” di qualche numero era intitolato Per una pedagogia rinnovata per il futuro dell’Europa, a firma di un gruppo di esperti di educazione scientifica creato dalla Commissione Europea. Il testo denunciava il calo di interesse per la scienza in questi anni e porgeva ai lettori una proposta concreta e assolutamente condivisibile: “portare nella scuola una scienza hand on e minds on, passando dal metodo deduttivo (un apprendimento passivo in cui ci si limita ad ascoltare la lezione) alla educazione scientifica basata sull’indagine”. Ovvero, osservare fenomeni, discuterne con i compagni, raccogliere informazioni, formulare ipotesi. Così la scuola si trasforma in laboratorio dello scienziato che lavora animato dalla curiosità. Materia prima essa stessa, delle ricerche, di tutte le ricerche. Dentro e fuori la scuola.
Al momento le mie indagini sono due: a che servono le ricerche a casa? E chi deve farle: gli insegnanti, i genitori o gli studenti?


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