un piedibus per pensare
Ho aperto la porta e ho trovato un bambino alla batteria, uno alla tastiera e un altro al microfono, messi insieme non facevano neanche dieci anni. In quel momento ho pensato che se esiste un paradiso doveva essere qualcosa di assai a questa scena. Una sensazione che ancora oggi mi porto dietro, la felicità di vedere bambini felici. Oggi, sono passati oltre quindici anni da quel ricordo, devo riconoscere che forse ero condizionata da tutto l’insieme. Quello era solo uno degli atelier della scuola. Una scuola dell’infanzia. Avevo già visitato l’atelier della ceramica, l’angolo dei travestimenti e dalla finestra si vedeva la giostrina degli uccellini. Ero in uno degli asili di Reggio Emilia, e quello era un viaggio di studio. Studiavo quanto l’ambiente è legato all’apprendimento e alla crescita. Dei bambini, ma anche degli adulti. L’altra sera siamo stati ospitati nel cortile della scuola elementare. Un gruppo di volontari, di insegnanti, di operatori ci stavano illustrando una iniziativa, solo una proposta per ora, poi chissà. Si chiama piedibus. E sullo schermo scorrevano le immagini di bambini che camminavano insieme per andare a scuola, guidati dagli adulti. Un autobus fatto di persone che funziona con il sole e con la pioggia, con giubbini catarifrangenti e con impermeabili colorati. Forse, forse, potrà accadere anche qui. Nel nostro quartiere. Le foto però erano state scattate a Reggio Emilia. Sarà stato questo riferimento geografico a tirarsi dietro il mio ricordo. Il piedibus è una cosa bellissima. Serve a liberare le mamme e i bambini dalle automobili, a diminuire lo smog, a conoscere la città camminando.
Sono intervenuti anche i rappresentanti dell’amministrazione. Anche loro entusiasti. Mi guardavo intorno e sentivo che c’era tanta gente che aveva voglia di camminare, di attraversare la città con nuove forme di partecipazione. C’erano tante insegnanti, tanti genitori, un paio di ragazzini africani che saltellavano per i corridoi, una mia amica brasiliana, ho riconosciuto cadenze diverse che andavano dal nord al sud. Tutti insieme, lungo lo stesso corridoio. Mi sentivo già parte di un piedibus immaginario, di gente che ha voglia di andare lontano. Poi una signora si è fatta avanti. "Dove? Dove può camminare questo piedibus?" ha chiesto ai politici. "Se prima non ci liberate i marciapiedi dalla spazzatura, questi bambini dove mettono i piedi?"
E come nella favola del cigno appiccica, la breccia polemica si è tirata dietro altre rimostranze, altri malcontenti. I conducenti della serata hanno cercato di arginare i discorsi, riconoscendoli giusti, certo, ma farli adesso significava bloccare tutto. Impantanare i buoni propositi, buttarli via. Anche loro in una discarica nel centro della città. Ma se non ora, quando è possibile parlare dei cassonetti strabordanti di roba appostati in ogni angolo?
Sono andata via anch’io poco dopo. Il tempo scaduto. Per strada rovistavo ancora tra i miei studi di pedagogia e psicologia. Mi veniva in mente uno che analizzava le facce di quanti andavano in auto e di quelli che camminavano a piedi. Le prime erano meno mobili, avevano una grammatica espressiva ridotta a cinque, sei espressioni, solitamente legate all’insofferenza o all’isolamento. Le seconde erano varie, sempre cangianti, pronte a offrire differenti segnali di accoglienza, di riconoscimento, di saluto. Adesso vorrei saperne di più di quella ricerca, dovrei aprire vecchi falconi di riviste. Ma sono ancora per strada che cammino, incrociando persone che si mettono la sciarpa davanti alla bocca quando passano davanti alle collinette della spazzatura a pochi metri da casa. Camminare fa bene, placa l’inquietudine. Vado a prendere i bambini che sono stati dagli amichetti a giocare. Rientriamo a casa e lo formiamo noi un piccolo piedibus, che fa slalom tra i cassonetti della spazzatura. Camminiamo parliamo camminiamo ci fermiamo camminiamo ridiamo camminiamo pensiamo camminiamo…
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