Scritto sui banchi

22 febbraio 2006

foto di gruppo, in un interno


“Non siamo tutti uguali. Anche se voi ci considerate così. Secondo voi siamo tutti una massa di scansafatiche, senza ambizioni, senza ideali, senza valori. Non valiamo niente, secondo voi. Io non sono massa. Io non mi sento massa”. Lo dice tutto d’un fiato, davanti a tutti. Durante un incontro tra insegnanti e studenti. E lei è una studentessa, jeans e piumino imbottito, con la pashimina azzura e l’onda di capelli neri che le cade ogni tanto sul viso. Lo dice con rabbia e determinazione. Quella rabbia dei sedicianni che mannaggia alla miseria, anche se sei convinta e le cose le dici bene, quella rabbia ti fa riempire gli occhi di lacrime. E il solo modo che hai di non piangere è quello di morderti le labbra. Però l’hanno capito tutti che stava per succedere.
“Voi pensate di venire in classe e di sapere sempre tutto. Anche di noi. A voi piacerebbe sentirvi massa? Sareste contenti di sapere che per noi siete tutti uguali? Certo che non vi farebbe piacere…”
Ha ricominciato, si chiama Marta e quello di prima è stato solo un momento di debolezza. Ha l’urgenza di farsi capire. “Voi entrate e dite: oggi spiego un teorema, oggi interrogo in chimica, oggi ripetiamo un argomento. Ognuno di voi viene e ha qualcosa da dire o da fare”.
Vero: entriamo, mettiamo la firma sul registro e pensiamo che questo sia sufficiente a cancellare quello che è accaduto pochi minuti prima. Pensiamo di offrire unità didattiche compatte, ben organizzate, solide. E invece?
“Vista dai banchi la cattedra è un baraccone da circo. E voi sopra, davanti, dietro, che entrate in scena, parlate parlate parlate”, confermano gli altri studenti.
Come siamo? Che facce abbiamo? Come spieghiamo? Con tante cose da fare non è che ci poniamo spesso questa domanda. Però in classe, unitamente ai nostri registri circolano diari di bordo paralleli e clandestini, altrettanto importanti e fondamentali. Dove sono recensiti tic, manie, espressioni dei prof. Ecco qualche esempio: un chicco di caffè per ogni tazzina bevuta dalla prof in classe; il numero di minuti trascorsi a chiacchierare tra la prof di matematica e l’insegnante di sostegno; una tacca per ogni volta che il prof di italiano chiede: avete capito? (senza aspettare una risposta); la prima circostanza utile in cui la prof di inglese parla di suo figlio di quattro anni; il nome del tartassato di turno, che per tutta la settimana il prof di informatica interrogherà e chiamerà “cap ‘e bomba”. Commenti, glosse e calcoli certosini, talvolta accompagnati da grafici e diagrammi, disegni e caricature. A vederla questa foto di gruppo racchiusa in un diario si resta impressionati. Viene voglia di chiudere gli occhi o di girarsi dall’altra parte. Viene voglia di dire io non sono così, non mi sento così. E’ solo la foto che è venuta male. E invece? “Non siamo tutti uguali. Anche se voi ci considerate così. Secondo voi siamo tutti una massa di scansafatiche, senza ambizioni, senza ideali, senza valori. Non valiamo niente, secondo voi. Io non sono massa. Io non mi sento massa”. Lo dice tutto d’un fiato, davanti a tutti. Durante un incontro tra insegnanti e studenti. E lei è una studentessa, jeans e piumino imbottito, con la pashimina azzura e l’onda di capelli neri che le cade ogni tanto sul viso. Lo dice con rabbia e determinazione. Quella rabbia dei sedicianni che mannaggia alla miseria, anche se sei convinta e le cose le dici bene, quella rabbia ti fa riempire gli occhi di lacrime. E il solo modo che hai di non piangere è quello di morderti le labbra. Però l’hanno capito tutti che stava per succedere.
“Voi pensate di venire in classe e di sapere sempre tutto. Anche di noi. A voi piacerebbe sentirvi massa? Sareste contenti di sapere che per noi siete tutti uguali? Certo che non vi farebbe piacere…”
Ha ricominciato, si chiama Marta e quello di prima è stato solo un momento di debolezza. Ha l’urgenza di farsi capire. “Voi entrate e dite: oggi spiego un teorema, oggi interrogo in chimica, oggi ripetiamo un argomento. Ognuno di voi viene e ha qualcosa da dire o da fare”.
Vero: entriamo, mettiamo la firma sul registro e pensiamo che questo sia sufficiente a cancellare quello che è accaduto pochi minuti prima. Pensiamo di offrire unità didattiche compatte, ben organizzate, solide. E invece?
“Vista dai banchi la cattedra è un baraccone da circo. E voi sopra, davanti, dietro, che entrate in scena, parlate parlate parlate”, confermano gli altri studenti.
Come siamo? Che facce abbiamo? Come spieghiamo? Con tante cose da fare non è che ci poniamo spesso questa domanda. Però in classe, unitamente ai nostri registri circolano diari di bordo paralleli e clandestini, altrettanto importanti e fondamentali. Dove sono recensiti tic, manie, espressioni dei prof. Ecco qualche esempio: un chicco di caffè per ogni tazzina bevuta dalla prof in classe; il numero di minuti trascorsi a chiacchierare tra la prof di matematica e l’insegnante di sostegno; una tacca per ogni volta che il prof di italiano chiede: avete capito? (senza aspettare una risposta); la prima circostanza utile in cui la prof di inglese parla di suo figlio di quattro anni; il nome del tartassato di turno, che per tutta la settimana il prof di informatica interrogherà e chiamerà “cap ‘e bomba”. Commenti, glosse e calcoli certosini, talvolta accompagnati da grafici e diagrammi, disegni e caricature. A vederla questa foto di gruppo racchiusa in un diario si resta impressionati. Viene voglia di chiudere gli occhi o di girarsi dall’altra parte. Viene voglia di dire io non sono così, non mi sento così. E’ solo la foto che è venuta male. E invece?

15 febbraio 2006

Tutto sull'amore

E’ finita la settimana dell’amore? E’ finita finalmente? Hanno fatto filone martedì, assemblea mercoledì e qualche classe persino ponte lunedì. Quasi si trattasse della festa del santo patrono di un paese grande quanto tutta la Campania. E invece delle luminarie: centinaia di cuori, cadenti, volteggianti, ammiccanti da ogni dove. Cuori e cioccolatini. Dalle eleganti vetrine dei bar agli spartani scaffali del supermercato. Da segnalare, per tempestività e incisività delle proposte, le bancarellucce lungo il Vialone di Caserta. Fiorite il giorno di San Valentino offrivano per cinque euro orsacchiotti che avevano legati alla vita un tubo di baciperugina. Sembravano personaggi dei cartoni animati, con la dinamite attaccata sulla pancia. Per vere e proprie esplosioni d’amore.
Interessante anche la combinazione delle parole inneggianti all’amore: alfanumeriche le frasi stampate sulle margherite rosse di velluto (80 voglia di te, 6 solo mia), intercambiabili quelle sulle pantofoline blu (baci-piede destro, abbracci – piede sinistro), effervescenti quelle ricamate sui cuori morbidi morbidi (hai conquistato un grande cuore, sono tuo, come t’è l’aggia dicere?).
L’indice glicemico delle scritture ha raggiunto livelli davvero elevati.
Ho voglia di te. E questa volta non si tratta più di dolciumi. E’ il libro di Federico Moccia che è già negli zaini di molte studentesse. Tutte desiderose di sapere che ne è di Babi e Step, coppia tormentone di questi ultimi anni, che dopo aver sostato 3MSC (contrazione poco romantica ma assai usata di Tre metri sopra il cielo) era precipitata nel buio senza fine degli amori finiti.
E l’autore afferma che essere innamorati, no, non significa essere felici. Quante certezze, questo scrittore. Beato lui. Però, continua, l’amore è anche altro. Ci sono tante emozioni che l’amore dispiega e lui spiega così bene che ... Insomma: in quelle righe bisogna tuffarsi per capirci qualcosa. E nuotare almeno per quattrocento pagine di romanzo. (Anch’io in realtà sono già in apnea. Sono uscita solo per prendere aria e scrivere un po’).
Code in libreria, code in pizzeria, code in discoteca, per questo San Valentino 2006. Processioni da festa patronale, appunto. Euforia, stanchezza, noia, felicità. E dopo la festa, bisogna collocare i cuori ricevuti negli scaffali , sulle mensone, sui planner della vita di tutti i giorni. E vedere l’effetto che fa.

08 febbraio 2006

lettera a un insegnante


Una lunga lettera indirizzata ad un insegnante. L’ha scritta Vittorino Andreoli, edita da Rizzoli. Agli insegnanti in genere sono recapitate notizie d’ufficio, circolari ministeriali, al più qualche presentazione di novità editoriali. Lettere poche. Editoriali dei giornali tanti, avvitati solitamente alla cronaca di edifici devastati o di alunni particolarmente indisciplinati. E in genere si tratta di strali, di accuse, di rimbrotti. Voi insegnanti… e segue un elenco di precise e dettagliate mancanze. Leggo i testi di Andreoli ogni settimana, ho imparato a seguire i fili dei suoi discorsi, ad entrare insieme a lui, attraverso i suoi articoli, nelle carceri nei manicomi criminali o anche, semplicemente, davanti alla tv e guardare con i suoi occhi “i nostri ragazzi”. Quelli che hanno ferite difficilmente rimarginabili. Quelli delle vite impossibili. Quelli che la famiglia non ha amato, quelli che la scuola ha compreso. Non che tutte le diagnosi di Andreoli siano condivisibili. Ma lui le pone con l’affetto e l’apprensione di medico che ha visto tanta, troppa sofferenza. Per questo ha scritto. Perché dice, avrebbe voluto fare l’insegnante. E ha un’invidia profonda per noi insegnanti. (Fa bene, anche io spesso mi invidio da sola per il lavoro che faccio). Una lunga lettera di 170 pagine che ho letto come un romanzo. Il romanzo di un uomo che, sentendo “la creatività e la giovinezza nella vecchiaia” (parole sue), si rivolge a noi prof – indistintamente uomini e donne, precari oppure sulla soglia della pensione – che con i bambini e con gli adolescenti ci viviamo quotidianamente. Qualche accenno sulla scuola (poca roba: gli stipendi inadeguati, gli edifici fatiscenti, etc) perché, giustamente, Andreoli crede che “sul tema della scuola ci si possa solo indignare”. E la lettera prosegue parlando a noi, che abbiamo il compito di educare alla vita, di entrare nel cuore delle fragilità dei nostri ragazzi, di ricomporre tante fratture.
Considerando la classe una piccola orchestra, di cui il prof è il semplice direttore. La classe e non il singolo alunno. Qui, secondo lo psicologo la svolta necessaria, auspicabile dell’insegnamento. Educare al gruppo. Rendere la scuola un luogo protetto dove i ragazzi possono provare ad allargare le ali. E così, di metafora in metafora, Andreoli arriva a scriverci(mi): “Il tuo ruolo è sacro”. Che detto così, come fa lui, è bello. Tradotto nella vita quotidiana si trasforma in qualcos’altro. Anche la storia dell’orchestra. Lui fa l’esempio dei Beatles, della forza che avevano quando suonavano tutti insieme, mai eguagliata dalle performance individuali dei quattro. Fa l’esempio della Philarponic Orchestra. Nelle mie classi la musica si sente è assai vicina a quella della scalcagnata compagnia di Romeo degli Aristogatti. Musica bellissima, accidenti. “Tutti quanti voglion fare il jazz, perché resister non si può al ritmo del jazz…” Però niente a che vedere con l’immagine di compunti orchestrali. Ecco, Andreoli disegna un possibile orizzonte, un possibile punto di arrivo: “la scuola deve inventare, distribuire ideali…”. Credo anch’io che la scuola abbia bisogno di uno slancio utopico, più che di trito pessimismo. Ma senza distogliere lo sguardo dalla realtà che vive e di cui vive.

01 febbraio 2006

solo se interrogato


“Federico, sei per sette?” “Quarantadue”, esclama Arianna. “Ho detto Federico…” dice laconica la maestra. Rassegnata al fatto che Federico quelle tabelline ci metterà ancora un po’ ad impararle.
“Tre per no..?” “Ventisette”. Ancora! Arianna è proprio un fulmine. Non solo in matematica. E’ così anche in italiano, in inglese, in informatica. Brava, da inorgoglire tutte le maestre.
Federico pure le conosce le tabelline. Solo che prima di rispondere fa dei suoi ragionamenti. Sei per sette quarantadue più due quarantaquattro. Come la canzone dello Zecchino d’Oro. A ventisette ci arriva facendo trenta meno tre. E’ lento. Non riesce a rispondere prima dei suoi compagni. E non ha alcun senso della competizione.
Mani in alto, in classe, addio. Una inconsueta decisione presa qualche giorno fa in un liceo londinese. Ultima trovata pedagogica o efficace strategia didattica? A scuola bisogna imparare a controllare la propria impulsività e a prendersi la responsabilità di rispondere quando si è interpellati. Troppo schiacciante il confronto tra i bravi e i meno bravi, tra alunni brillanti e altri che invece non riescono a esprimersi e vivono comodamente sotto sotto i banchi. A volte soffrendoci. A volte marciandoci. E allora il silenzio non nasconde timidezza ma solo una sana e coerente assenza di studio.
Sfumature non sempre facili da capire. Dove finisce la confusione e dove incomincia la frustrazione, l’ansia, la paura rispetto ai compiti che gli sono stati assegnati (e che spesso non sono stati nemmeno capiti)? Talvolta i ragazzi non temono tanto la maestra o il prof, ma i compagni di banco, i leader della classe, i genitori a casa, che assegnano, non troppo inconsapevolmente, altri compiti ai figli.
Il ricettario educativo di queste ultimi anni ha sfornato varie proposte: dall’istruzione individualizzata all’apprendimento cooperativo. Ovvero: dalla possibilità di costruire itinerari su misura delle capacità, delle potenzialità e degli interessi dell’allievo, alla necessità di allestire ambienti di apprendimento in cui tutti – alunni o insegnanti – rappresentino una risorsa per gli altri. Tutti, anche gli alunni che non hanno niente da dire, a condizione di lavorare in gruppo.
Ovvio che l’erudizione dei libri di pedagogia non vale l’esperienza della pratica didattica.
E poi, la competizione, cacciata fuori dalla porta della scuola, rientra dalle altre mille finestre della vita degli studenti: dalla collezione di figurine dei ragazzini alle corse in moto degli adolescenti. O alligna nel portone accanto. Lo sa bene il povero Gaetano (Troisi) di Ricomincio da tre, vicino suo malgrado, "di un bambino che sapeva fare tutto: addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni. Sapeva la tabellina del due del tre del quattro del cinque. E suonava pure il pianoforte! Ma con tante case che ci stavano proprio vicino alla mia doveva venire ad abitare?”. E pensare che forse, “il vicino mostro”, non aveva mai alzato la mano.


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La scuola è un racconto. Scritto sui banchi continua sul web ogni settimana. Con storie, immagini e dialoghi.

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