Scritto sui banchi

21 giugno 2006

Prima prova...

Notte prima degli esami. L’hanno raccontata tutti. In tutti i modi. Da Venditti – forse è lui che l’ha inventata - a Eduardo De Filippo in duble face: gli esami non finiscono mai/ada passà a nuttata. Qui invece una sintetica cronaca delle 24 ore dedicate al primo giorno d’esame.

Martedì 20
Ore 16.00. sms di mio nipote. V anno di liceo. 300 km di distanza dalla zia prof.
“Esce Svevo. Sicuro. Che faccio? Come faccio l’analisi del testo dei brani? Ho troppa paura. E’ normale?”.
16.05. sms a mio nipote. “Direi di sì. Ad entrambe le domande. Fai l’analisi del testo dei brani in cui in cui i personaggi di Svevo hanno paura. (praticamente sempre). E’ un esercizio omeopatico. :-)
16.10. sms di mio nipote. :-(

Ore 17.00. Telefonata di mamma, insegnante. “Hai sistemato i bambini per domani? Prima delle quattro non finiamo. A proposito il tema sarà su Pascoli. Sicuro. ”

Ore 19.00. Telefonata della mia collega. “Esce la Cina. È sicuro. Come facciamo?”
Quante sicurezze in un solo pomeriggio. A parte che anch’io vorrei uscire, come la Cina, invece è tutto il pomeriggio che chiamano per lanciare nomi coriandoli di letteratura, storia e geografia. E poi il tema devono farlo loro, non noi.

Ore 23.00. Mi addormento sul guanciale dei tg della notte che ricordano il mezzo milione di alunni domani alla prove. Pascoli Svevo Ilpapa le tracce più gettonate nel toto esami. Non una parola su noi prof.

Mercoledì 21
Ore 7.00. La sveglia è un monito severo per i bambini che devono riprendere per qualche giorno i ritmi scolastici. “Ma vengono i tuoi attenti?” Mi chiede Paolo. Saggezza dei quattro anni: per Paolo gli alunni sono gli attenti. Coloro che hanno il compito di essere attenti. Durante l’anno, quando i miei “attenti” fanno festa a scuola un po’ ci guadagna anche lui perché vado a prenderlo prima dall’asilo. Comunque oggi i miei attentialunni dovrebbero venire. "Fate presto! fate presto! devo andare a scuola!. Alle otto meno cinque sono già depositati all’ingresso della piscina.

Ore 8.00. Assiepati fuori il portone. Abbracciati ai vocabolari. Agli amici. Alla paura. Gli alunni mi salutano più del solito. Alcuni: febbre negli occhi. Molti: occhiaie nere. Tanti: occhiate d’intesa, ai più bravi.
Nella cartoleria di fronte la scuola c’è ancora una ragazza che compra un temario last minute.
“Mi raccomando non copiate”, dico ai miei. “Tanto la dobbiamo salvare noi l’Italia professorè! Si comprano le partite, o’ re fa le pezzotte alle macchiette del pokér, la televisione, ae!, non ne parliamo proprio: ildiodeglimbrogli. E noi, manco un tema possiamo copiare?”
“Esatto. Vedi che capisci tutto al volo: non puoi copiare manco un tema”.

Ore 10.00. Le buste sono arrivate integre. Lette le tracce. Non una – una – lontanamente affine a quelle previste. Abbastanza facili. Per lo più già svolte durante l’anno. Lettura, spiegazione, scaletta, scrittura del testo. Tutto procede. Tra i banchi una spolverata di figurine di Padre Pio, qualche rosario, un Tao intrecciato alla penna, un portachiavi-portafortuna con su scritto un insindacabile: 100 per cento sexy. Durante la mattinata, la paura ha lasciato il posto alle bottigline d’acqua. Alle sigarette. Alla routine del posso uscire e posso avere un altro foglio.

Ore 15.00. A casa: flipper di telefonate, sms, mail. Per raccontare vecchi temi e nuovi tremori. Nel frattempo lavo accappatoi e costumi da bagno.
:Ore 16.00. Sms a mio nipote: Domani è un altro compito. :-)
Ore 16.05. Sms di mio nipote: :-( :-(

16 giugno 2006

che quadri!

Capita, a volte. Le scene topiche, i momenti chiave dei migliori anni della nostra vita, ad un certo punto vengano considerati inutili, sbagliati, nocivi. Di più: nocivi, dannosi, pericolosi. Come è possibile? Ci sono, ci siamo passati tutti e adesso scopriamo di aver vissuto a nostra insaputa un trauma tremendo, oltre che di essere stati stimolati nella aggressività e competitività. Questi, secondo gli psicologici, sarebbero gli effetti, primari e secondari, dei quadri. Quadri scolastici, ovviamente.
I tabelloni appesi a conclusione dell’anno scolastico, su cui sono segnati – e dunque resi pubblici - i risultati conseguiti dagli studenti. Quel non ammesso alla classe successiva, quel breve giro di parole che di fatto vuol dire sei stato bocciato, non deve essere scritto lì, sotto gli occhi di tutti. Secondo alcuni psicologi (ne spuntano come funghi ogni volta che si parla di ragazzi e di scuola) si tratta di una inutile frustrazione, di una sofferenza gratuita che può spingere anche a gesti gravi e inconsulti. Sarebbe preferibile un colloquio con le famiglie in cui si spiegano le ragioni della bocciatura.
Anche i voti positivi non andrebbero resi pubblici: i confronti generano conflitti, i più bravi che guardano con aria di sufficienza i meno bravi, ci si odia per un (piccolo) pugno di numeri, ancora frustrazione, ancora sofferenza. Niente quadri. Tutto consegnato in busta chiusa ai genitori durante un ulteriore, forse ultimo, colloquio tra genitori e professori.
Ho dei dubbi. Magari qualcosa di vero c’è in questo discorso. Però chi vive nella scuola lo sa: una bocciatura è un trauma. Ma non solo per gli studenti. I docenti, i genitori, prima di arrivare a quel non ammesso alla classe successiva hanno attraversato lande di indifferenza, incomunicabilità, rifiuti, qualche volta strafottenza. E di certo tutto questo spalare impreparati, dissodare il terreno perché un tre diventi almeno quattro, ragionare in consiglio di classe, discutere con i genitori, mica si legge sul tabellone.
Sui quadri poi ci sono persino sei di diverso colore. Come un mazzo di carte da ramino, sui quadri cambiano i colori: sei rossi (truccati), sei neri (veri, forse). i chiamano “debiti”: contratti tra alunni e professori o degli alunni con se stessi? Lunedì escono i quadri ma già la città è stata tappezzata di manifesti. Un istituto parificato, in caratteri giallo e rosso si urla: “Hai perso l’anno? Trasforma la tua bocciatura in promozione”. L’ho letto. E un senso di inutile frustrazione e sofferenza gratuita si è impadronito di me. “Mettiti scorno!”, ho pensato rileggendolo. Anche se non sapevo bene a chi mi stavo rivolgendo: alla scuola parificata, all’alunno bocciato che adesso sarà promosso, a me e a tutti i prof come me, agli psicologi e alle loro diagnosi sopra le righe, o forse, proprio ai “quadri”.

08 giugno 2006

pranzo di fine anno

E’ finita. Come sempre. Con le interrogazioni di fine stagione. Convenienti, scontate e, si spera, foriere di promozione. Al massimo è debito. “Ma che fa?” L’importante è non averne quattro, di debiti. “Per non perdere l’anno, professorè”. Già. Come se così l’hai trovato, l’anno. Tra filoni, impreparati, litigi a casa, seccature a scuola. Ultime interrogazioni con le domande che si sfarinano tra le pagine dei libri. Cercando di capire quello che ha capito. Quello che sei riuscito a far capire. Domande che cercano di ricomporre schegge di sapere. Un minimo, davvero. Anche se quello che viene fuori da due pomeriggi di studio è poca cosa.
Però alla fine dell’anno arrivano anche gli inviti per i pranzi del quinto anno. Con tutta la ritualità della ricerca del ristorante, delle macchine da organizzare, delle imitazioni – finalmente! – dei professori, dei brindisi, delle poesie, dei regali. Dai prof agli alunni: braccialetti, spille, rubriche. Da anni propongo di regalare un libro, che ne so, un bel classico, o un libro attinente alla scuola frequentata, o uno che racconta di scuola. I colleghi mi guardano. Poi la più franca e simpatica del consiglio mi risponde decisa: nooooooo. Va bene: bracialetti, spille, rubriche. Al ristorante, sempre lei, la più franca e simpatica del consiglio, con piglio deciso richiama l’attenzione di tutti: “Ragazzi, qui c’è qualcosa per voi!!!”. “Il diploma! Il diploma!” rispondono accalcandosi intorno al pacco dono. Il diploma non c’è. (peccato, pensano tutti). Ma c’è l’affetto, la simpatia, la bonarietà dei prof. che per un anno scolastico, per un triennio o per un intero corso di studi li hanno seguiti, stimolati, arricchiti, ma anche rimproverati, dileggiati, cacciati fuori, sequestrato bigliettini da copiare, accompagnati alle gite, distribuito compiti in classe, voti, pagelle. E adesso sono qui. a tavola con loro. A mangiare scialatelli con le cozze e a brindare “almeno a cinquantanove”.
Pausa. Per via della mia calligrafia semplice e chiara mi capita spesso di trascrivere i voti sulle pagelle o sui tabelloni. Mi capita di segnare rari dieci. Dieci? Come fai a dare dieci ad un alunno? Perché è bravo e nel contesto delle cose che gli vengono chieste lui le svolge alla perfezione. Ok, dieci. Io non l’ho mai dato. Ovviamente riporto una marea di cinque e sei ma anche uno due e tre. Uno. Ma come fa un alunno a valere uno? Cosa sa uno che prende uno? No, quello è zero, cioè non sa niente, però io arrotondo a uno.
Play. Al pranzo di fine anno sono i ragazzi a mettere i voti ai prof. Sassolino tolto dalla scarpa solitamente da quei ragazzi che in pagella hanno letto spesso due tre quattro cinque. Le pagelle degli alunni seguono però personalissimi criteri: il prof che arriva sempre in ritardo, quello che non si assenta mai neanche per sbaglio, quello che sta tutto il tempo fuori a parlare con la collega. Professori zelig, la cui identità spesso si scopre proprio al pranzo di fine anno.
Qualche volta anche i ragazzi tirano fuori i loro pacchi dono: fermacravatta per i prof., portagioie in argento per le professoresse, svuotatasche unisex (salvo poi dover spiegare a maschi e femmine che cos’è uno svuotatasche). Per un anno scolastico, per un triennio o per un intero corso di studi i ragazzi hanno cercato di saltare le interrogazioni, di barare ai compiti, di partecipare a tutto tutto tutto quello che si poteva fare fuori dalle mura scolastiche. E adesso sono qui, a tavola con loro. A mangiare la composta di frutta con gelato e zucchero a velo. E a brindare “da sessanta in sù”.


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