a cinema, verso un mondonuovo
“Abbracciatevi, abbracciatevi come quelli che devono vedersi presto”, diceva il prete agli emigranti che stavano per partire. La macchina da presa inquadra le braccia, le faccia schiacciate, le maniche di camicia stropicciate dalle mani che stringono forte. Come quelli che devono vedersi presto. Nel film di Emanuele Crialese quelli che vanno verso il Mondonuovo sanno che non si vedranno più.
Si sono inerpicati in cima a una montagna, hanno camminato scalzi sui sassi aguzzi con una pietra in bocca. Padre e figli. L’hanno sputata piena di sangue davanti ad un Crocifisso immobile e silenzioso. Pretendevano un segno, una risposta, una benedizione che li lasciasse partire. Che li liberasse dalla maledizione di quella terra maledetta che era la Sicilia cento anni fa. Un lavoro. Volevano un lavoro. Al dolce assenso cristiano la vecchia madre dell’uomo risponde con una rumorosa ribellione degli spiriti pagani: le anime dei morti buttano tutto per aria. No che non si deve partire. E per andare dove?
E’ straziante e struggente questo film. Perché l’America è fatta della stessa sostanza dei sogni e in quelli migliori le monete dorate cadono sulla faccia. Perché l’America ti dà il tormento di una serpe nel ventre e devi ricorrere alla magia per scacciarla via. Perché l’America è circondata dal mare che sembra latte e puoi nascere un’altra volta. Oppure puoi annegare.
Prima del mare c’è la mareggiata delle partenze: le sedie e le pentole distribuite tra i vicini; gli animali venduti in cambio di abiti usati, perché il padre promette che in America “ci dobbiamo andare vestiti da principi”, anche se le scarpe prima di allora non le hanno mai calzate; il dolore dei saluti, degli occhi che bruciano. Quasi si incendiano quelli di un ragazzino muto che dice addio alla capra dagli occhi neri e liquidi.
L’odissea di questi pastori che devono raggiungere la nave, incomincia nei pressi del porto, tra le onde di viaggiatori e truffatori, medicine false e fotografie di rito. Gli uomini da una parte le donne dall’altra, le mani che battono sui tamburellli e i capelli passati sul pettine stretto per togliere i pidocchi. La vita sulla nave è così. Scivola tra noia e perdizione su questo “grande luciano” che prima non si capisce che cos’è e poi si scopre che è l’Oceano. Ancora stupiti dal fatto che non ci sono alberi, case e neanche strade: “Niente c’è”. Però può anche capitare di trovare l’amore. Sino a Ellis Island. Ascultare, tastare, misurare, valutare. Un esercito di medici e burocrati accoglie gli stranieri che devono entrare nel nuovo mondo. Distribuendo pane e umiliazione, docce calde e diagnosi negative. Si credono “padreterni” questi americani. Degli italiani qualcuno resta. Qualcuno torna indietro. Bisogna essere forti e temerari per andare lontano, incontro al futuro. Bisogna essere forti e temerari per sentire ancora le proprie radici. Per amare il proprio passato. E tornare a casa per scelta.
Si sono inerpicati in cima a una montagna, hanno camminato scalzi sui sassi aguzzi con una pietra in bocca. Padre e figli. L’hanno sputata piena di sangue davanti ad un Crocifisso immobile e silenzioso. Pretendevano un segno, una risposta, una benedizione che li lasciasse partire. Che li liberasse dalla maledizione di quella terra maledetta che era la Sicilia cento anni fa. Un lavoro. Volevano un lavoro. Al dolce assenso cristiano la vecchia madre dell’uomo risponde con una rumorosa ribellione degli spiriti pagani: le anime dei morti buttano tutto per aria. No che non si deve partire. E per andare dove?
E’ straziante e struggente questo film. Perché l’America è fatta della stessa sostanza dei sogni e in quelli migliori le monete dorate cadono sulla faccia. Perché l’America ti dà il tormento di una serpe nel ventre e devi ricorrere alla magia per scacciarla via. Perché l’America è circondata dal mare che sembra latte e puoi nascere un’altra volta. Oppure puoi annegare.
Prima del mare c’è la mareggiata delle partenze: le sedie e le pentole distribuite tra i vicini; gli animali venduti in cambio di abiti usati, perché il padre promette che in America “ci dobbiamo andare vestiti da principi”, anche se le scarpe prima di allora non le hanno mai calzate; il dolore dei saluti, degli occhi che bruciano. Quasi si incendiano quelli di un ragazzino muto che dice addio alla capra dagli occhi neri e liquidi.
L’odissea di questi pastori che devono raggiungere la nave, incomincia nei pressi del porto, tra le onde di viaggiatori e truffatori, medicine false e fotografie di rito. Gli uomini da una parte le donne dall’altra, le mani che battono sui tamburellli e i capelli passati sul pettine stretto per togliere i pidocchi. La vita sulla nave è così. Scivola tra noia e perdizione su questo “grande luciano” che prima non si capisce che cos’è e poi si scopre che è l’Oceano. Ancora stupiti dal fatto che non ci sono alberi, case e neanche strade: “Niente c’è”. Però può anche capitare di trovare l’amore. Sino a Ellis Island. Ascultare, tastare, misurare, valutare. Un esercito di medici e burocrati accoglie gli stranieri che devono entrare nel nuovo mondo. Distribuendo pane e umiliazione, docce calde e diagnosi negative. Si credono “padreterni” questi americani. Degli italiani qualcuno resta. Qualcuno torna indietro. Bisogna essere forti e temerari per andare lontano, incontro al futuro. Bisogna essere forti e temerari per sentire ancora le proprie radici. Per amare il proprio passato. E tornare a casa per scelta.