Scritto sui banchi

26 ottobre 2006

a cinema, verso un mondonuovo

“Abbracciatevi, abbracciatevi come quelli che devono vedersi presto”, diceva il prete agli emigranti che stavano per partire. La macchina da presa inquadra le braccia, le faccia schiacciate, le maniche di camicia stropicciate dalle mani che stringono forte. Come quelli che devono vedersi presto. Nel film di Emanuele Crialese quelli che vanno verso il Mondonuovo sanno che non si vedranno più.
Si sono inerpicati in cima a una montagna, hanno camminato scalzi sui sassi aguzzi con una pietra in bocca. Padre e figli. L’hanno sputata piena di sangue davanti ad un Crocifisso immobile e silenzioso. Pretendevano un segno, una risposta, una benedizione che li lasciasse partire. Che li liberasse dalla maledizione di quella terra maledetta che era la Sicilia cento anni fa. Un lavoro. Volevano un lavoro. Al dolce assenso cristiano la vecchia madre dell’uomo risponde con una rumorosa ribellione degli spiriti pagani: le anime dei morti buttano tutto per aria. No che non si deve partire. E per andare dove?
E’ straziante e struggente questo film. Perché l’America è fatta della stessa sostanza dei sogni e in quelli migliori le monete dorate cadono sulla faccia. Perché l’America ti dà il tormento di una serpe nel ventre e devi ricorrere alla magia per scacciarla via. Perché l’America è circondata dal mare che sembra latte e puoi nascere un’altra volta. Oppure puoi annegare.
Prima del mare c’è la mareggiata delle partenze: le sedie e le pentole distribuite tra i vicini; gli animali venduti in cambio di abiti usati, perché il padre promette che in America “ci dobbiamo andare vestiti da principi”, anche se le scarpe prima di allora non le hanno mai calzate; il dolore dei saluti, degli occhi che bruciano. Quasi si incendiano quelli di un ragazzino muto che dice addio alla capra dagli occhi neri e liquidi.
L’odissea di questi pastori che devono raggiungere la nave, incomincia nei pressi del porto, tra le onde di viaggiatori e truffatori, medicine false e fotografie di rito. Gli uomini da una parte le donne dall’altra, le mani che battono sui tamburellli e i capelli passati sul pettine stretto per togliere i pidocchi. La vita sulla nave è così. Scivola tra noia e perdizione su questo “grande luciano” che prima non si capisce che cos’è e poi si scopre che è l’Oceano. Ancora stupiti dal fatto che non ci sono alberi, case e neanche strade: “Niente c’è”. Però può anche capitare di trovare l’amore. Sino a Ellis Island. Ascultare, tastare, misurare, valutare. Un esercito di medici e burocrati accoglie gli stranieri che devono entrare nel nuovo mondo. Distribuendo pane e umiliazione, docce calde e diagnosi negative. Si credono “padreterni” questi americani. Degli italiani qualcuno resta. Qualcuno torna indietro. Bisogna essere forti e temerari per andare lontano, incontro al futuro. Bisogna essere forti e temerari per sentire ancora le proprie radici. Per amare il proprio passato. E tornare a casa per scelta.

13 ottobre 2006

a scuola con la spazzatura

La normalità a volte è un bene prezioso. E’ una necessità. Un’ancora di salvataggio. E quando non c’è, siamo disposti a tutto. Fingiamo che ci sia. Almeno quel poco che possiamo. Riordinare la casa, andare a lavoro, uscire con gli amici. Non è che dimentichiamo quello che c’è intorno. Cerchiamo solo di superarlo. Senza ignorarlo. Ovviamente. Laura esce di casa la mattina e si mette i capelli lunghi sul viso. Cammina veloce e per quanto può cerca di non respirare col naso. Le buste della spazzatura hanno invaso tutto il vialetto del suo parco. Le montagne di rifiuti sospingono i pedoni al centro della strada, obbligano ad inventarsi percorsi più lunghi e tortuosi. Lo stesso per le bici. Va peggio per le macchine, ma almeno dentro gli abitacoli si possono alzare i finestrini. E guardare speranzosi la silhuette dell’arbre magic che ondeggia dallo specchietto. Ci sono bidoni stracolmi ovunque. Sacchetti abbandonati tutto intorno. Lasciati con rabbia. Con indolenza. Con rassegnazione. Un gesto faticoso, oramai, quello di buttare la spazzatura. Pesa come un macigno. Come la vergogna di abitare in un posto e non sapere come fare per prendersene cura. Anche le spiegazioni, le più risapute, sono spazzatura. Montagne di luoghi comuni o di denunce accorate che nessuno sa come rimuovere. Ogni tanto, in qualche punto della città si fa più pulito. Al mattino ci si sveglia e si trova una strada lavata, qualche contenitore finalmente svuotato. E’ una rassicurazione che dura un attimo. Svoltato l’angolo, attraversata una strada, usciti da un sottopasso, la situazione è la stessa del giorno prima. Centinaia di metri di spazzatura. Persino davanti le scuole materne. I piccolini ci vanno. Le mamme protestano. Ma lasciano comunque i bambini a scuola. Escono e si rimettono il fazzoletto davanti alla bocca. Qualcuna telefona al 113. Dovunque una alzata di spalle. I ragazzi alle superiori, loro che possono, decidono di non entrare. Chiedono al preside la chiusura dell’istituto. E’ una decisione che non può prendere la scuola, spiegano i professori ai ragazzi, tentando di farli entrare in classe. Qualcuno ci riesce, qualche classe entra. Qualche altra classe resta fuori. Va a casa. Attraversando vialetti stracolmi di spazzatura. “A casa mamma accende l’incenso”, dice timidamente Valeria. Alza le spalle perché capisce bene che non c’è molto da fare, in realtà.
“Però non è giusto farci vivere così. Peggio delle bestie”. Roberto è arrabbiato. Ed era arrabbiato anche l’altro anno quando si assentava da scuola per manifestare contro l’apertura della discarica ad Acerra. “Scriviamo una lettera al sindaco…” , cerca di smuovere le acque, di dare un ordine alla massa di studenti fuori scuola, sparsi da un marciapiede all’altro per allontanarsi dalla spazzatura. Spazzatura. Bisognerebbe vederla per farsene un’idea. Un materasso, decine di barattoli di pelati della pizzeria di fronte, cassette di frutta, la scatola di una scarpiera da montare, sacchetti slabbrati. La prepotenza della normalità. Ognuno a casa continua a fare quello che gli pare. E a buttare quello che deve buttare. I pochi volenterosi hanno smesso di fare la raccolta differenziata. “C’addà fa u sindaco?” risponde Anna mentre schiaccia col tacco la cicca della sigaretta.
Dopo un’ora si riesce a fare lezione. “Zacinto mia. Che te specchi nell’onde del greco mar da cui vergine nacque Venere, e fea quelle isole feconde col suo primo sorriso, onde non tacque …” Le mosche si posano sui libri e dalle finestre ci raggiungono folate di cattivi odori. Fingiamo una normalità che ci rassicura. E che non dura. Non può durare. Non deve durare.

08 ottobre 2006

compiti compiti e ancora compiti. a casa

Compiti a casa dei bambini. All’ordine del giorno di qualsiasi conversazione tra mamme. Davanti alla scuola, sulla panchina di un parco, a cena con gli amici di sabato sera.
Settembre non è ancora finito e già la pazienza dei genitori è a riserva. Quasi quasi c’è da rimpiangere le lunghe, lunghissime vacanze estive. Metti quelli della scorsa settimana: scrivi dieci parole con la gl. Seconda elementare.
Testimonianza n. 1 La mamma di Davide è ancora traumatizzata mentre lo racconta. “Senza urla non si può incominciare”. Daaaavideee. E il bimbo ci mette un’infinità di tempo ad arrivare in cucina. Poi butta la cartella a terra, apre tutti i quaderni sul pavimento e ovviamente non c’è il quadernone che gli serve. Ritorna in camera. Daaaavideee. Eccolo. Posa il quaderno e si siede. Si piega sulla sedia, spinge il braccio destro verso il borsellino, a terra, e tira su le gambe dall’altra parte per tenersi in equilibrio. Ecco, c’è quasi riuscito (giusto un piccolo strappo muscolare, ma non lo dice per non essere rimproverato). Presa la penna rossa. Ripete l’operazione per la penna blu. Questa volta si tuffa dalla sedia. Daaaavideee. Sono passati dieci minuti e non ha ancora aperto il quaderno. Foglia foglio figlio bottiglia bottiglie bottiglione bottiglina paglia piglia peglia. “Ecco, finito”. Due minuti di orologio. “Cos’è peglia?” “Non lo so”. “Allora trova un'altra parola”. “Non mi va”, dice il piccolo e se ne va a giocare fuori. Elena si accende una sigaretta e mette a posto la cartella del figlio.
Testimonianza n. 2. Marco è più ubbidiente. Ha fatto merenda e adesso incomincia i compiti. “Mamma mi dici una parola con la gl?” Rosaria è molto dolce col piccolo. E poi è insegnante, sa come prendere gli studenti in difficoltà. E’ piena di buoni propositi pedagogici, che persegue con ostinazione. “Amore, come si chiama quell’animaletto che abbiamo visto l’altro giorno?””Non lo so, non mi ricordo”. “Quello bianco, che mangia la carota”. “Non lo so, davvero”. “Hai i dentoni davanti…” Muflone?” “No, non c’era il muflone alla fattoria didattica, con la gl. E’ anche un cartoon che ti piace …” (imita Bug Bunny). “Ah… coniglio”, dice il piccolo. E incomincia a scrivere. Così per dieci parole. Il pomeriggio è un massacro, dice seria.
Testimonianza n. 3 La mamma di Ludovica l’ha detto subito che non era compito suo quello. Ma del papà. Che provvede quotidianamente a seguire la figlia. Ludovica vuole solo bravissima, bravissima con lode o supercampionessa. “Papà venti parole con la gl”. “C’è scritto dieci…”. “Ma io voglio fare venti. Prendi il vocabolario, dai…” . Padre e figlia sfogliano il vocabolario. Lui legge, lei sceglie cosa scrivere: Cartiglio, cipiglio, nascondiglio, sconciglio. “Ludovica, hai fatto una pagina intera, basta, sono più di trenta parole”. “Ancora, dai… “, “Basta! che pure la maestra si scoccia a leggere”. “Ancora” “Parapiglio…” Poverino, dice la moglie. Certe volte non riesce neanche a vedersi il telegiornale regionale che a lui piace. Alle sette e un quarto stanno ancora facendo i compiti. Se non scrive il triplo di quanto gli hanno assegnato, la bambina non si alza da tavolo.
“E quando studieranno la qu come farai?” Chiedo al papà che nel frattempo ci ha raggiunto. “Non lo so, non ci voglio pensare”.


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