Scritto sui banchi

25 gennaio 2007

i ragazzi del coro

Premessa: al di là del forno frigo e asciuga capelli non ha alcuna dimestichezza con gli strumenti elettronici. Ed è per lei ragione di vanto. Salvo poi chiamare noi quando proprio non ne può fare a meno. E così domenica pomeriggio, nel cuore di un raduno familiare, ci ha chiesto di mettere in funzione il dvd per vedere un omaggio che le avevano fatto i suoi alunni. Abbiamo temporeggiato un po’, ma poi, va da sé, abbiamo ceduto: mia madre è una a cui non si può dire di no. Abbiamo visto tutti le foto in digitale e le riprese della manifestazione natalizia della sua classe. “Questa è bravissima” e metteva il dito sullo schermo per indicare una sua alunna. “Zitti, sentite come sono bravi”. E nel silenzio coatto risuonavano i canti di Natale in inglese. “Lui è il preside, questa è la collega che li ha guidati, loro sono i miei alunni” così per tutto il tempo, distribuendo uniformemente le impronte sul video. E noi lì, sempre a vedere e a raccogliere le storie dei suoi alunni. Che sono adulti, che frequentano la scuola serale togliendo tempo al lavoro e al tempo libero.
Il giorno dopo c’è stato il consiglio straordinario per una classe quinta della mia scuola. Quelle classi che nascono male e finiscono ancora peggio. La riunione era stata (con)vocata per illustrare ai genitori le pessime acque in cui alunni e professori stanno navigando in vista degli esami di Stato.
Ogni docente ha fatto le proprie rimostranze: non studiano, non hanno i libri, non portano i quaderni (e nemmeno le penne), spesso non vengono a scuola. Mai, davvero mai, sono entrati in orario a scuola.
Gli alunni zitti e muti. I genitori indignati, anche se sapevano tutto, erano a conoscenza di tutto. Diteci voi cosa dobbiamo fare. Una bella paliata, risponde qualcuno. Mandateli a lavorare, dice un’altra. E così, tutta una serie di suggerimenti che loro avevano già tentato: sequestro del motorino, lezioni private, ricatti, fine settimana a lavoro in pizzeria. Botte no - le paliate - perché a 19 anni i figli sono più grandi e più forti dei genitori.
“Quando trovate queste bande di chiavici, dovete dividerli subito”, suggeriva l’anno scorso un altro genitore il cui figlio si trovava nella stessa situazione.
Ripensavo al coro che mi aveva mostrato mamma. Cosa avevano i suoi alunni in più dei miei? Consapevolezza? Bisogno di riscatto? Insegnanti più bravi? Cosa?
Perché in quel video ho visto qualcosa che univa e nel mio consiglio eravamo divisi, l’uno contro l’altro armati di rabbia, indifferenza, frustrazione?
Il coro aveva dato loro il senso di un percorso da fare insieme, ognuno con il proprio ruolo, il proprio spazio, in vista di un risultato finale comune e condiviso. Sicuramente lo spirito di gruppo rafforzava quello che avveniva tra i banchi, ma ha dato agli alunni qualcosa in più.
Ecco, tutti abbiamo detto quello che i nostri alunni non ci davano. Nessuno ha fatto caso a quello che noi, noi scuola, non abbiamo dato. E ovvio, qui non basta un coro. Non adesso. Però quella musica che ho sentito rende così afono il canto del cigno di quelli che negli alunni non ci credono, neanche per sbaglio.
Mentre adesso, in questo momento, alla De Viti De Marco di Triggiano (Ba) stanno preparando un musical. (e dunque un altro dvd che mamma mi farà vedere…)

23 gennaio 2007

senti chi parla?

L’altro giorno un collega mi ha detto che gli piaceva proprio la mia voglia di volare. Io? sono così tenacemente attaccata alla quotidianità... Aveva letto un saggio che ho dedicato alle complicate, complicatissime, relazioni tra docenti. Quel testo poi è confluito in un libro che raccoglie i diversi interventi di un corso di formazione – Psicologia e Scuola – che si è svolto due anni fa a Caserta, sotto l’ottima direzione di Giorgio Agnisola (per conoscerlo www.giorgioagnisola.com).
Il volume si chiama “Senti chi parla?” e raccoglie testimonianze e interventi dedicati alla difficile arte di ascoltare.
Il mio incomincia con un’immagine rubata ad un romanzo letto tanti anni fa: un aeroplano che raccoglie parole. In questo caso, l’aeroplano che volteggia intorno alla scuola e cerca di capire quello che si dice.
A questa immagine fa riferimento anche Giancarlo Palumbo,insegnante di scuola elementare a Sarno, che accompagna la lettura con una mail di commento (persino più interessante del mio testo). Per questa ragione la giro.

“Senti chi parla può essere considerato una sorta di ossimoro? Siamo
sicuri che la scuola riesca ancora a parlare? Quali sono le lingue e i
linguaggi della scuola? Siamo proprio sicuri Marilena che sopra di noi
volino aeroplani? Spesso vedo lunghi treni-merci che trasportano
ecoballe coi rifiuti delle nostre giornate, con le sale dei professori
che sembrano non-luoghi, con le aule e i gessetti che aggiungono a
polvere ad altra polvere, col rumore sordo dei collegi, dei siti web
scolastici che non visita nessuno, dell'antintellettualismo come
glamour e la troppa psicologia che annulla le categorie del giudizio.
Credo proprio che la scuola sia sprofondata nell'ovvio e che riesca a
stento a produrre sapere. Una volta si selezionava, oggi si livella,
una volta si provava a valutare, oggi si parla di conferma;una volta
c'era l'educazione oggi invece si gioca sullo spontaneismo e sul
giovanilismo. Allora c'erano i ruoli, oggi parliamo di persone che si
incontrano, una volta la scuola era separata, oggi le frontiere e i
confini con l'esterno nessuno sa quali e quanti sono. E allora? Manca
il senso politico della scuola, questa a mio avviso è quella soluzione
che ci permetterebbe di pensarla e di ridarle un senso oltre che una
vocazione culturale.
La tua è un'analisi a tratti goffmaniana,
impietosa e indulgente insieme. Del resto uno non può ogni volta
mettersi e togliersi gli stessi occhiali. Fotografa bene lo spaccato e
invoca universalmente il riscatto con un supplemento di poesia. Bello
ma triste, mistero direbbe Gozzano bello ma senza fine, senza mettere
in conto l'idea alquanto imbarazzante di stare a tavola con tanta
gente.....”

del mio aeroplano vi dirò un’altra volta. Per chi ha voglia di leggere il saggio, posso inviare la versione elettronica. Basta richiederlo qui o a lucentem@tin.it

19 gennaio 2007

braccio di ferro and co.

L’altro giorno mio figlio mi chiede: “Ma quando andrò in quarta elementare diventerò adulto?” “In che senso, a mamma?” “Nel senso che smetterai di trattarmi come un bambino?” “Perché dici questo?” “Perché voglio fare di testa mia”. “Sarebbe a dire?” (dentro di me sento distintamente la voce di mia zia che mi dice: sei terribile con le tue domande, e la peggiore di tutte è quando chiedi: esempio?). “Fammi qualche esempio”, (scusa zia, mi è scappata, però non ci ho messo il punto interrogativo). “Ad esempio non voglio troppe regole”. “Le regole? Le regole sono importantissime, le hanno anche gli adulti…” E parto con un’orazione di quelle, appunto, a regola d’arte, arte classica, intendo: pars destrunes, pars costruens etc. Però non mi sono accorta del bambino che si è allontanato e mi ha lasciato da sola prima a parlare e poi a pensare.
Il giorno dopo a scuola interrogo un ragazzo di quinta. Un po’ si arrangia, poi non risponde ad una domanda. “Ho bisogno di parlare con tua madre”, dico, specificando il mio orario di ricevimento. “Non vedo la necessità di parlare con mamma”, mi dice serio, senza alcuna arroganza. “Proprio l’altro giorno ho compiuto 18 anni, mi dia modo di mostrare la mia maturità. So benissimo quando e come studiare. Non credo sia inutile l’intervento di mia madre”.
Il fatto è che io ci tengo molto a lui, è quel tipo di alunno che può fare tanto, parla bene, è intelligente, è acuto nelle osservazioni. Gli manca solo lo studio. Gli basterebbe pochissimo per andare benissimo, invece stando attento in classe e riesce ad andare benino. Giustamente, a che cosa può scrivere l’intervento di sua madre? Vuol fare da solo. E poi cosa avrebbe potuto fare la madre dopo il mio colloquio? Rimproverarlo? Mettersi accanto a lui a ripetere Verga? Legarlo alla sedia davanti ai libri, come il servo ad Alfieri? (bè, però questa ultima alternativa non è proprio da escludere). “Va bene”, dico con tono fintamente comprensivo - ha ragione lui e basta – “non c’è bisogno di far venire tua madre”.
Mio figlio ad otto anni, il mio alunno a 18 mi hanno chiesto la stessa cosa. Mi aspetto di incontrare qualcuno di 28 da qui a poco. Invece mi imbatto in un ultra settantenne che più o meno dice la stessa cosa. Ma questo qualcuno è anche il mio mito di infanzia, un personaggio che io adoro e adoravo proprio quando diceva “Io sono quello che sono e questo è tutto quello che sono”.
Sempre in gamba, Braccio di Ferro. Caparbiamente deciso ad affermare se stesso. Mi piaceva per questo. E anche per certe sue uscite, tipo tirare un pugno ai coccodrilli e far venir fuori una bancarella con tanto di borsette di pelle (di coccodrillo!) da regalare ad Olivia. E’ nato il 17 gennaio 1929, Braccio di Ferro. Dalla matita di Segar, prima i fumetti e poi la televisione. Ne ha fatta di strada in compagnia dei suoi spinaci. E noi, i suoi amici, con lui. “Io sono quello che sono e questo è tutto quello che sono”.
Come è bello credere nei principi! Sapere che essere se stessi è la cosa migliore che possa capitare ad una persona. Come è difficile poi riconoscere questa stessa affermazione quando sono gli altri a farla. Perché dobbiamo essere sempre coerenti tra quello che pensiamo e quello che facciamo?
Capperi sotto sale! Questa volta è Braccio di Ferro a darmi lezioni di coerenza. Ok, messaggio ricevuto: mio figlio farà ogni volta che potrà di testa sua e il mio alunno verrà all’interrogazione studiando come ritiene meglio per lui.

16 gennaio 2007

l'erba del vicino

Una coincidenza, una intersezione di eventi. Il cui senso si può capire (se si capisce) solo a posteriori. Decido di leggere un libro che ho in casa da tempo, più che altro perché ho voglia di restituirlo. Magic People di Giuseppe Montesano. Protagonista un inquietante condominio napoletano in cui si sgomita, si urla, si litiga. I fatti del mondo si scompongono in un prisma di sguardi ora miopi ora lungimiranti e l’unico che non vuole, non riesce a capire niente di quello che accade intorno è lo scettico io narrante del romanzo, il “dottore”, come lo chiamano qui, che di mestiere fa lo scrittore. Mi sembra di essere nel pieno dell’abusivismo delle esistenze. Tutti, proprio tutti, vogliono qualcosa di più di quello che hanno. Soldi, bellezza, fama, fame, sesso, vacanze, feste tradizionali e riti esclusivi, donne e amanti. Leggo il libro con accanto un quaderno e una matita, così magari posso trascrivere subito qualche frase che mi piace. Invece più mi addentro nelle pagine più provo angoscia. La matita scivola a terra e dimentico di raccoglierla. Leggo di donne grasse, di fidanzate isteriche che pretendono brillanti, di alunni che, ca va sa dir, non hanno voglia di studiare e di ridicole professoresse che sconfessano le raccomandazioni, di uomini affetti da crisi depressive per vacanze esotiche andate a male e commercialisti contenti di saper lucrare il fisco. Dove ha trovato un catalogo così orribile dell’umanità? Orripilante come le vongole che ogni tanto appaiono e scompaiono nel libro, disgustosa sino a rendersi ridicola, sino a sfiorare la vergogna.
Mi viene in mente un passaggio di un’intervista in cui Montesano raccontava che gli capitava spesso di salire sul pulmann e di seguire i passeggeri, e talvolta di pedinarli. Qualcuna di queste poi sarebbe finita nei suoi romanzi. Ho invidiato la professione di scrittore. Soprattutto il tempo libero che consente a chi ha voglia di guardare al di là della propria vita. Ho provato a immedesimami: una scrittrice sul c40. Ma dovrei andare almeno a Napoli. Qui passerei gran parte del tempo ad aspettare l’autobus su cui salire per pedinare qualcuno. Così ho preferito fare un altro mestiere.
E mentre la gente di Magic People continua a litigare, l’autore sembra suggerirci una ragione per cui tutto questo accade, una causa – una tra le altre – plausibile e riconoscibile: la televisione. Seducente, affabile e pagabile in comode rate, la televisione, oramai al plasma, plasma desideri, innesca sogni, disegna miraggi, infiamma passioni, spiega delitti. No, spiega delitti non c’è nel libro di Montesano, ma ad un certo punto ho spesso di leggere e sono passata a vedere la tv che qualcun altro aveva acceso in casa. Non accadeva da almeno quattro mesi. Seguo pochissimo la televisione, e mai di sera. E proprio oggi c’è un condominio in cui hanno litigato e Vespa sta simulando il modo in cui la vicina ha utilizzato i coltelli, “dall’alto in basso”, spiega scandendo le sillabe, facendo sentire il respiro. Il suo, quello dell’assassino, quello del bambino, il mio. Non so bene, c’è tutto questo ansimare, stasera in tv. Forse per questo la sto seguendo, mi ha catturato. Mio malgrado. Mi chiedo come faccia una persona a stare davanti al video dopo che gli hanno ammazzato moglie figlia e nipote invece di stare a casa a piangere, a pensare. Mi pongo le domande che si sono posti tutti. Mi aggiro tra i condomini della finzione letteraria e quelli delle inquadrature televisive. Mi chiedo se Montesano avesse avuto un pulman per spingersi sino a Erba cosa avrebbe scritto. Forse è questo il mestiere di scrittore, entrare nei condomini, raccogliere indizi di vita quotidiana, ricomporli in un disegno, farci capire qualcosa in più. Difficile mestiere quello dello scrittore. Come quello del lettore. Come quello dello spettatore.


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La scuola è un racconto. Scritto sui banchi continua sul web ogni settimana. Con storie, immagini e dialoghi.

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