Scritto sui banchi

31 ottobre 2007

Biologia molecolare dei sogni

Il Professore illustra il risultato della sua ultima ricerca. Un risultato davvero straordinario. Alle sue spalle scorrono le immagini sul grande schermo mentre lui maneggia con delicatezza il mouse del portatile e fa scorrere le slide. La platea lo ascolta rapito. Consapevole di vivere un’esperienza unica: sentire la sua voce pacata, l’eloquio elegante come il taglio della sua giacca. Anche gli altri professori, seduti al tavolo della presidenza si girano lievemente per guardare sullo schermo la dolce elica delle molecole che poi diventa spirale. Tutti con gli occhi fissi su quelle misteriose combinazioni. La scienza, qualche volta, è un miracolo. Incomprensibile ed elargito come un dono, qui, stasera, a noi comuni mortali.
Quando la spiegazione finisce si leva un applauso lungo e avvolgente. E’ rivolto a lui, ai suoi lunghi anni di ricerca, ma l’orgoglio che accompagna il battimani è esteso anche a noi, che abbiamo ascoltato e preso parte all’esperienza.
Poi il Professore riprende a parlare. Vuole ringraziare i suoi ricercatori, dice. Lo hanno accompagnato per tanto tempo, hanno speso il tempo migliore della giovinezza per seguirlo. Ma accanto a questo non può non ricordare quanto è difficile fare scienza nel nostro Paese, soprattutto nel Sud di questo paese. Applausi. Non alla mancanza di investimenti, credo, ma al coraggio di questa denuncia.
Ma non è solo una questione economica. C’è di più, c’è di peggio, continua il Professore. C’è che i giovani non hanno sogni. Applausi scroscianti. E non hanno orizzonti. Applausi ancora più scroscianti con le teste che annuiscono. C’è che i giovani non si avvicinano più alla scienza perché non hanno spirito di sacrificio. Applausi da scottarsi le mani.
Sullo schermo appare un’immagine che va su e giù per tutto il tempo: il computer è in stand by. Come i pensieri del Professore, forse. Come il pensiero del pubblico, forse. Come le mie riflessioni, sicuramente.
Perché? Perché cavolo applaudire a chi dice che i giovani non hanno sogni? Perché ci compiaciamo di questa affermazione che va su e giù nelle nostre convinzioni? Perché è la verità, mi dicono le persone con cui commento questo brandello di discorso.
Non ci sono sogni, non ci sono orizzonti e non c’è spirito di sacrificio, mi rispondono.
E che c’è? Il vuoto, il nulla, l’assenza di progetti. Non lo vedi? Non è rimasto più niente.
Ecco. E’ soprattutto quel “più niente” che mi opprime. Quand’è che c’è stato un momento in cui si poteva dire: ragazzi qui c’è un orizzonte grande come il cielo, immenso come il numero di molecole che si possono studiare? Quand’è che ci si è sentiti veramente liberi di poter esprimere se stessi?
C’è stato un tempo, una generazione, un giorno della storia in cui tutto o anche solo una piccola cosa sembrava facile e possibile?
Non è sempre stato così? Non è sempre stato così difficile fare scienza, arte, letteratura, musica, poesia, pittura?
E la creatività non si è sempre incuneata tra i meandri degli affanni quotidiani? Degli investimenti che non arrivavano, delle diffidenze di quelli che ci circondavano e di mille altri insormontabili ostacoli.
Al Professore sono state spalancate le porte di fondazioni e enti di ricerca oppure anche lui ha affrontato diffidenza e indifferenza?
Quanto ai sogni: non si sono ancora visti quelli che nascono alla luce del sole. I sogni hanno sempre bisogno del buio per apparire limpidi e precisi. Al massimo, il giorno aiuta a definirli per quello che sono: aspettative, velleità, indicazioni da seguire. E di giorno capisci se ne vale la pena oppure no.
E decidi il da farsi. Anche disegnare gli orizzonti, se proprio servono, se è vero che non ce ne sono.
Non è un discorso da applausi il mio: si viene tacciati di ottimismo, di dabbenaggine, di cecità.
Stasera le lodi sono per il Professore. Niente è più come prima, dice ancora. Prima di lasciare la platea grondante di applausi. Per lui, per la sua ricerca, e per noi che ascoltiamo e assentiamo al pessimismo elargito come un dono.

23 ottobre 2007

Le invasioni barbariche dei compiti a casa

Cinquanta frasi da scomporre: analisi logica e grammaticale. Cento vocaboli da trovare sul vocabolario e trascrivere il significato sul quaderno. Un riassunto, le domande e la ricerca sull’autore del brano. E tre temi, ma questi sono una punizione per uno non svolto il giorno prima. E’ domenica pomeriggio e mio nipote non può uscire. E’ alle prese con i compiti di italiano. Io e sua madre facciamo i calcoli, anche solo per trascrivere le frasi o il riassunto e le domande, il piccolo ci metterebbe dalle cinque alle sette ore. E questo vale per una sola materia, in seconda media. Poi dovrà andare impreparato in scienze, francese e inglese. Ma noi dobbiamo uscire, dobbiamo fare delle commissioni, e siamo bloccate da lui che invece di fare i compiti sbuffa, si angoscia e ci angoscia. Ma può un insegnante mostrare i muscoli in questo modo? Perché è chiaro che quando assegna questi lavori è a sé che pensa, non certo agli alunni. “Quanto sono bravo a farmi ubbidire” pensa, e magari lo dice anche agli amici: “Tutto sta nel sapersi imporre…” Un’altra nipotina, un anno più piccola, la domenica precedente, in un’altra città. Trascorro oltre un’ora e mezza a reggerle il libro mentre lei ripete le invasioni barbariche: ostrogoti (da dove venivano, dove andavano e quando sono arrivati in Italia), visigoti (da dove venivano, dove andavano e quando sono arrivati in Italia), unni (da dove venivano, dove andavano e quando sono arrivati in Italia), longobardi (da dove venivano, dove andavano e quando sono arrivati in Italia). Mentre lei parla a squarciagola io faccio in silenzio un discorsetto con la sua insegnante. Vorrei chiederle: perché? Intanto il perché di tutti questi barbari nel volgere di poco tempo. E poi perché deve impararli a memoria, la creatura. Lo so anch’io il perché delle invasioni, le frontiere dell’impero che diventano poco protette, la grandezza dell’impero romano oramai ridotto a brandelli e poi il bisogno di nuove terre perché quelle in cui i barbari vivevano erano ridotte in povertà. Insegno la stessa materia, ma vorrei vedere come lei spiega queste cose, come riesce a catturare dei ragazzini di dieci anni. Io dopo aver nominato il terzo popolo che finisce in “goto”, noto l’occhio dei miei illanguidirsi, l’attenzione dirigersi in direzioni multiple e a quel punto mi tocca tirare fuori un paio di assi nella manica tipo: la storia della strega di Benevento – non era una donna ma uomini, longobardi, nel normale esercizio di funzioni religiose – Attila con le sue distruzioni in 3D per le quali dovette intervenire il papa. Una storia di superpoteri che si stavano formando e affermando (ma questa esemplificazione la tengo per me).

E soprattutto: come è riuscita a estorcergli lo studio della partita doppia di invasioni e distruzioni?
Ho trovato un volantino sotto il tergicristallo che mostra un orologio e chiede a caratteri cubitali: TUO FIGLIO DEVE FARE I COMPITI?
Domanda retorica, certo che deve farli. Tu che puoi fare per me? E il foglietto mi indica un centro studi che per sessanta euro al mese (a materia o tutto compreso?) prende in custodia il pargoletto e te lo riconsegna con i quaderni finiti e ordinati, diari controllati e materie imparate.
Anche la memorizzazione di ostrogoti e visigoti, mi chiedo?
Il fatto è che la lezione domenicale della nipotina è una sineddoche della situazione della scuola oggi. Frontiere poco protette – chi deve seguirli nello studio, gli insegnanti o le famiglie? - le scolaresche troppo grandi e quindi difficili da seguire e motivare e l’arrivo dei barbari: professori privati, tutor, neolaureate che si offrono per realizzare riassunti e appunti per pochi euro. Perchè le loro terre, quelle del lavoro, sono desertificate… Anche qui, invasioni, distruzioni, cumuli di mancanze, dentro e fuori scuola.
“Pure mia sorella ha tanti compiti alla scuola media”, mi dice un alunno. “Ma io le ho detto di non preoccuparsi, perché quando si arriva alle superiori se i compiti sono tanti non si fanno e basta”.
E lui lo sa per esperienza, dunque c’è da fidarsi.

16 ottobre 2007

qualcosa da riparare

Venerdì è stata la prima. Lunedì se ne ipotizzava un'altra. Le manifestazioni contro gli esami di riparazione infiammano questo autunno che sa di primavera. Alcuni ragazzi impedivano ai compagni di entrare, i docenti impedivano di impedire, sono scappati spintoni e parolacce,tra il fumo dei motorini che arrivavano e le sigarette accese alle otto di mattina.
Dopo un'ora sono entrati quasi tutti. abbiamo ripreso a fare lezione, senza fermarci un momento a pensare...

Un best seller di qualche anno fa raccontava di una scuola malata, scuola sull’orlo della catastrofe, inutile, saccente e presuntuosa. Tutta progetti e niente contenuti, mille attività e zero impegno. Una macchina per somari.

Tale intensa e ininterrotta attività produttiva, nelle pagine di questo testo, è incominciata proprio con l’abolizione degli esami di riparazione ad opera del Ministro dell’Istruzione D’Onofrio. Un breve passaggio governativo, il suo, ma foriero di gravi conseguenze. Perché i debiti, le insufficienze nascoste sotto i sei, dovevano essere colmati con corsi di recupero offerti dalla scuola, e dunque non più a carico delle famiglie, che avevano modo di godere, finalmente delle meritate vacanze. Fin qui il passato. (E il riferimento al libro che è La scuola spiegata al mio cane).

Quanti sono stati i debiti prodotti dagli studenti in questa decina d’anni? Migliaia, forse centinaia di migliaia. Si potrebbero riempire stive di navi, depositi bagagli degli aeroporti, fare concorrenza ai depositi merci dei cinesi. Ci sono scuole in cui l’ottanta per cento degli studenti viene promosso con debito, da uno o quattro. Quattro è bocciatura, come a dire: “hai esagerato”, ma se il Consiglio dei professori sa perorare la giusta causa per cui uno studente ha vissuto solo un anno di sbandamento, ecco, la promozione pezzotta può comunque arrivare.

Quanti sono gli studenti che poi hanno saldato il conto con le carenze in una due tre o quattro discipline? Non si sa, o meglio ci sono le schede consegnate da noi prof, i registri per chi vuole fare i corsi di recupero, i verbali che raccontano in maniera striminzita l’evoluzione della vicenda – non ha recuperato, ha parzialmente recuperato, non ha recuperato – ma quello che è accaduto veramente, come si fa a saperlo? Lo si scopre dopo, quando i docenti universitari vanno in tv a dire che fanno lezioni di grammatica ai piccoli scrivani che abbiamo licenziato, quando si tocca con mano l’analfabetismo dilagante e non ci vergogniamo più dell’ignoranza galoppante.

Che fare? Di certo non possiamo restare nella bieca rassegnazione e insoddisfazione e, in attesa di tempi migliori, il nuovo ministro ha recuperato dal cilindro pedagogico i vecchi esami di riparazione.

Quasi tutti i prof sono stati contenti, perchè la frustrazione aveva raggiunto oramai livelli di guardia, e almeno questo è uno strumento per indurre gli studenti ad impegnarsi. Un piccolo spauracchio, non è molto, ma è già qualcosa.

Adesso sono loro che non ci stanno. Gli alunni non vogliono essere vittime di una sola disciplina, o peggio ancora di un docente ricattatore e assetato di potere. Infatti, hanno scaldato i motori della manifestazione con un po’ (un bel po’) di video che mostrano docenti indecenti: mangiatori di panini, produttori di sbadigli, macchine di errori, sfigati d’alto bordo e le solite prof avvenenti e pruriginose. Grazie, ovviamente, ai soliti telefonini machete con cui distruggeranno la scuola (o quel che resta, a questo punto).

Va bene il ritorno agli esami di riparazione, ai corsi di recupero, che non si sa ancora come realizzare, ma c’è un particolare da considerare: ad essere cambiato è soprattutto il modo di affrontare gli insuccessi, le insoddisfazioni, le carenze e le mancanze: questi menano. Sempre più frequentemente la fragilità si trasforma in aggressività e violenza. Dimenticando questo aspetto, ignorando la dimensione emotiva dello studio, la qualità sempre più impegnativa della relazione tra docenti e studenti, tra famiglie, insegnanti e ragazzi, rischiamo di trovarci scuole sempre più allagate, rotte, sprangate. Con tanti debiti da pagare. E recuperi davvero impossibili da realizzare. Dunque ancora: una scuola inutile, saccente e presuntuosa.

09 ottobre 2007

La settimana delle lingue europee, in gambese


La scusa del mal di gamba la tira fuori ogni volta che può: “Non ne vuole sapere proprio di andare”, mi dice con un tono lamentoso. Poi mi salta in braccio ed è tutto contento.
“E tu glielo spieghi alla tua gamba che è importante camminare, altrimenti non puoi fare un sacco di cose, non puoi giocare a pallone, non puoi uscire…”.
Ce ne andiamo in giro così, con lui che mi sta a cavalcioni sulla testa e io che cerco di farlo scendere. “Mamma, ma io non so parlare in gambese”, asserisce convinto di aver trovato un ottima ragione per restare appollaiato su di me. “E allora cerca di imparare il gambese…”, gli rispondo mettendolo giù. Del gambese, ovviamente, non ne abbiamo sentito parlare prima, né io né lui. E’ un’invenzione nuova, fresca della fantasia dei suoi cinque anni. E’ una lingua che può essere fatta di rumori di passi sull’asfalto, netti e precisi come un paio di tacchi oppure prossimi al silenzio come saltelli con le suole di gomma. Il gambese io me lo immagino così. Forse mio figlio utilizzerebbe un altro alfabeto.
Strana cosa le lingue. Il mal di gamba era un pretesto e adesso che siamo arrivati al parco scorazza felice tra i vialetti. Venti anni? Saranno passati venti anni dal mio esame di filosofia del linguaggio all’università. Un’aula affollatissima, piena di studenti e di professori. Giornate intere a studiare filosofi del linguaggio che avrei capito dopo, molto tempo dopo. Ho finito la parte con gli assistenti e sono passata a quella con il docente titolare. “Allora Lei non ha letto la nota 136 del libro?”. “L’ho letta, certo” (ho letto tutte le cinquecento note. Non immaginavo però si dovessero imparare a memoria anche i numeri). “Secondo Lei ci sono più modi di dire bianco al polo nord o all’equatore?”. “All’equatore. Ho capito (finalmente) a quale nota faceva riferimento”. Ecco, la nota spiegava che la lingua è un organismo vivo, molto complesso, con uno stretto legame con la storia e ancor più con la geografia, con lo spazio che abitiamo. Gli eschimesi hanno tanti modi di dire bianco – almeno fino allo scioglimento dei ghiacciai – perché nella monocromia cromatica in cui sono immersi, riescono a cogliere tutte le sfumature. Cosa che probabilmente accade anche nel deserto, ma con il colore, lo spessore e la qualità della sabbia.
Il mio professore era Tullio De Mauro. Nel libro di Educazione Linguistica, di cui curava introduzione e note, c’era una sola illustrazione: la sezione di un tronco d’albero. Se guardiamo le lingue in un momento preciso riusciremo a vedere la forza evidente del passato (con i cerchi sul tronco si contano gli anni degli alberi), e la sua combinazione con il presente. Nessuno strato dell’albero è uguale ad un altro. In ogni attimo nascono e muoiono parole. In ogni attimo muoiono e nascono lingue.
Una decina di giorni fa è stata celebrata la settimana delle lingue europee. Un evento assolutamente invisibile in Italia ma molto celebrato in Europa. Avremmo dovuto ragionare sul nostro (pessimo, scolasticamente pessimo) rapporto con le lingue straniere, sul modo in cui la nostra lingua si contamina continuamente con le altre espressioni idiomatiche del continente sino a formare quello che gli esperti chiamano “intangliano”. Avremmo dovuto. Invece spesso il mal di gamba viene anche a noi, e non riusciamo ad andare troppo lontano, nelle manifestazioni ufficiali.
Oddio, ho perso di vista mio figlio! Lo cerco in tutto il parco, urlando in gambese.


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