l'illuminismo spiegato a una prof
A scuola ci sono giorni che si aspettano per tutto l’anno. Più delle feste, più dei compleanni. Perché un insegnante ha l’appuntamento con il proprio argomento preferito, o quello che ritiene fondante, essenziale. Se capiscono questo, hanno capito tutto. Ma va bene anche se capiscono solo questo. Chi se ne importa dell’assolutismo di re sole! Al diavolo Giacomo I e Giacomo II! E quelle guerre di successione che fanno venir voglia di strappare le pagine.
I L L U M I N I S M O.
Finalmente! E di anno in anno la lezione diventa sempre più bella e interessante, le frasi mantra si arricchiscono di particolari, di sfumature, di aneddoti con cui catturare l’attenzione.
Sconfiggere il buio con il lume della ragione. Il sapere coincide con la libertà. Il cielo stellato sopra di me, la morale dentro di me. Kant non c’è nei libri di storia, ma bisogna parlane lo stesso: l’illuminismo è una categoria dello spirito che ancora oggi ci appartiene.
E che dire di Montesquieu, quando, ragionando sulla sete di dominio, spiega che la sola cosa necessaria è che “il potere arresti il potere”.Anche se oggi quella parola arrestato, insieme a potere, rischia di portarmi in un terreno insidioso. Non oggi, la prossima volta ne parliamo, giuro. E subito, in picchiata verso Rousseau, e il suo “Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini”. Perché c’è stato questo processo di degenerazione dell’umanità? Avrebbero molte cose da dire a proposito. Ma io li precedo: all’origine di tutti i mali c’è la formazione della proprietà, sconosciuta allo stato di natura. Il buon selvaggio ignorava il concetto di mio e tuo. Con la proprietà, nata insieme all’uomo civile, sono nate le differenze tra ricchi e poveri e di qui sono scaturite tutte le altre ingiustizie e sopraffazioni.
“Al paese mio ci stanno tanti buoni selvaggi…”. Freno di botto.
Il mio alunno abita a Marcianise, e non avevo mai sospettato il legame tra questa cittadina e il mio Rousseau. “No, se uno lascia il motorino per la strada, ci sono tanti buoni selvaggi che non ci pensano che ci può essere la proprietà privata, salgono sul motorino e se lo prendono. Fanno sempre questo”.
Si ride per la forza del paradosso, mentre si fa la conta dei motorini e delle bici che sono stati rubati nel corso dei loro diciassette anni. Abbastanza.
Un compagno replica: “Allora sono più civili al paese mio”, che è vicino Napoli, patria di un altro illuminismo, intenso e complicato. “Da me, se non ci sta la proprietà non si fanno furti. Vogliono tenere la soddisfazione loro”. E cioè? “Per rubare qualche cosa ci deve stare un catenaccio, un lucchetto, un segnale che quella cosa non si tocca e loro la vogliono avere per forza”. Fammi un esempio, continuo a non capire.
“Professorè, l’altro giorno stavamo facendo un trasloco da casa di mia nonna. Dovevamo portare i mobili a un'altra parte. Siccome il furgoncino era tutto pieno abbiamo lasciato un comodino in mezzo alla strada, per fare un altro viaggio. Un signore si è girato tutto arrabbiato è ha detto: mo’ vi siete imparati tutti quanti a lasciare la munnezza mezz a via. Mio padre l’ha guardato storto. Siccome stava là, senza catenaccio nessuno se lo prendeva: era munnezza. Ma vi faccio vedere che se quel comodino lo legavamo a un palo con una bella catena, dopo dieci minuti sicuro non ci stava più”.
Sicuro io non so che dire, la discussione prosegue tra di loro, tra esempi e controesempi. Un dibattito alla maniera dei philosophie. Tratto da quella sterminata enciclopedia che è la loro vita.
Dubbio. Ma poi Proudhon e la sua teoria – la proprietà è un furto” glielo spiego o no?
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