Scritto sui banchi

30 settembre 2008

l'inaugurazione dell'anno scolastico

Una scuola che guarda al futuro, ha detto il presidente Napolitano. con un discorso affilatissimo, pieno di implicazioni politiche, da rileggere oggi con calma. quanto a me...


Alla fine di agosto ho comprato un bel quaderno di computisteria e un barattolone di cocoina. Volevo attaccarci i miei ritagli di giornale: cronache, dichiarazioni, fotografie, commenti di questo anno scolastico 2008 – 2009. Conservare è un’arte che richiede pazienza e impegno. Ma dopo un mese esatto da quegli strali contro gli insegnanti meridionali il quaderno è oramai pieno. Non c’è giorno o quasi che non si parli di scuola. prima tutti a denigrarla, poi tutti a difenderla, ministro contro il bullismo, studenti contro il ballismo, lo scuorno dei dati ocse, la vergogna dei tagli alle spese, i ricorsi contro gli insegnanti debosciati e l’attesa messianica per i professori meritevoli, la scomparsa del modulo, l’avvento del maestro unico.
Sfoglio gli articoli che profumano di colla. Leggo di un mondo che crolla ogni giorno, ho la sensazione di abitare in un’isola che tra un po’ sprofonderà. Non mi sembra vero uscire di casa e trovare la mia scuola al solito posto, con gli alunni fuori, il cancello spalancato, Bruno in portineria che mi augura buongiorno con un tono di voce che mi mette allegria.
E allora perché questa scuola, non solo la mia, ma tutta la scuola italiana la raccontano come una Alantide che sta per scomparire? E soprattutto: quand’è che si inabisserà?
Forse accadrà quando io sarò dentro, seduta sulla cattedra, e i miei alunni con i libri e i quaderni sui banchi, mentre chiedo di sottolineare un’anafora. Invece l’ora finisce, e dalla poesia medievale passo alla lezione sulla tirannide in quinta, e ragioniamo un bel po’ sulla paura degli oppressi e quella degli oppressori. Sembra sia molto simile nella sostanza, per via della fatica che si fa quando si sostengono i ruoli. Anche se sono indietro con il programma (molto indietro), non posso perdere l’occasione di leggere un brano del Settecento che forse ci aiuta a capire quello che sta succedendo nelle nostre strade. Strade meridionali, s’intende. Belle complicate. Da tutte le parti si sentono gli echi di certi spari accaduti qualche notte fa. Anche se è giorno e il suono della fisarmonica elettronica degli zingari si mescola alla lezione su Machiavelli. Nel frattempo ho cambiato classe: per un Principe è meglio essere amato o temuto? Temuto!!!! rispondono in coro. Sono cinquecento anni che la politica si è separata dalla morale. Ma la risposta i miei studenti la ricavano dall’esperienza: da quello che vedono, da quello che sentono. La mattinata prosegue così, saltando da un argomento all’altro, swichando dall’italiano alla storia, dagli stati nazione all’unità d’Italia, attraverso secoli mentre avanzano i paragrafi. Suona la campanella della sesta ora. Anche questa giornata è finita.
Sono almeno tre anni che gli chiediamo di non accendere i motorini nel cortile, di portali fuori a mano. E’ pericoloso, per loro, oltre che per la stabilità dell’edificio. Non c’è uno studente che accetta questa semplice regola. Tutti a strombazzare e a smarmittare. Noi prof usciamo per ultimi, guadagnando il saluto delle bidelle che ci chiudono il portone alle spalle: “A domani, professorè”. “A domani”, rispondo inforcando la bici. A casa mi aspettano i miei ritagli da incollare e lo stupore di aver vissuto un giorno di scuola, nonostante tutto. E di averne un altro da preparare.
Ieri, durante l'inaugurazione, quando il ministro, il presidente e persino Alessio Boni che leggeva gli articoli della costituzione, parlavano proprio di questa scuola qua, della mia Altantide quotidiana? Bisogna leggere i giornali di oggi, per saperlo

23 settembre 2008

mattine nere

e poi ci hanno pensato gli alunni a farci sentire vivi, in questo mesto inizio d'anno. e qui c'è il rumore del mondo che entra nelle classe sempre più forte, sempre più spesso. "i nir, i nir"... i neri, i neri. Abbiamo discusso di loro. Scontrandoci. Da una parte: "hann fatt bbuon", hanno fatto bene; dall'altra: sann a sta. Devono stare alle regole - a tutte le regole - che ci sono qui, se vogliono stare qui. Ci penso adesso mentre scrivo, che hanno parlato spesso in dialetto. più del solito, voglio dire. come se solo la lingua potesse offrire il rifugio necessario. la discussione continua. Intanto questo il mio pezzo sul mattino di domenica:

Non si era mai visto niente di simile. Le urla, i pali divelti, le automobili rivoltate. La strada diventa un serpente di uomini e donne mescolati tra il fumo, le fiamme e la pioggia. Agli spari nella notte di venerdì era seguita la paura di sempre, insieme alla consapevolezza di vivere in una “terra martoriata” dove tutto può accadere. E tutto accade. Una strage da far west, forse droga, forse malavita, sei morti da rubricare sotto la voce “camorra” o regolamento di conti. Le prime spiegazioni, per quanto dolorose, risultavano comunque plausibili.Quello che è seguito dopo, gli immigrati in strada contro gli italiani, è stato invece quello che non ci aspettavamo. Quello che è sfuggito ad ogni logica di comprensione e di previsione.

E’ stato come vedere l’altra identità di Castel Volturno, ma più in generale, della nostra terra. Uomini, donne e bambini che vivono insieme a noi, attraversano gli stessi spazi di vita, che rivendicano i loro morti, chiedono giustizia. Con la rabbia che segue sempre al dolore. Con gesti estremi che sembrano i soli possibili in certi momenti.

Una città piena di gente trasformata in terra di nessuno, uno scenario vuoto dove ha trovato posto un malessere scomposto, a lungo sommerso. Una banlieu di disperazione che può esplodere in qualsiasi punto della nostra provincia. Contro la polizia, contro le istituzioni, contro gli italiani. Contro l’ignavia. Contro l’incapacità di reagire. E contro la vita a cui si sentono condannati.

“Non è razzismo!, non è razzismo”, ha gridato una donna ghanese. E’ disperata, ha perso il marito durante la sparatoria. Non è razzismo, anche se negli ultimi mesi in Campania, sempre più periferie sono diventate luoghi di violenza, di spedizioni punitive, perché il razzismo è un ottimo strumento di coesione quando si vive nella miseria. Nella miseria materiale e morale. Torna sempre utile avere qualcuno da condannare, da combattere, serve a sentirsi meno soli, e più forti.
Intanto i cassonetti, l’immagine basica dell’incuria in cui viviamo da tempo, venivano rovesciati e bruciati per bloccare il passaggio dei residenti sulla Domiziana. E tutti siamo finiti in ostaggio della paura. Una paura a cui non si riesce a dare nemmeno un nome. Paura di quello che potrà succedere ancora. Lontano dalle zone presidiate, dall’esercito che tra un po’ sta per arrivare. Quando meno ce lo aspettiamo. Questa però non è una emergenza che si affronta con maquillage televisivo e poche azioni ad effetto. Mentre le indagini proseguono, mentre la Prefettura cerca una strada per agire, ci sono comunità, associazioni, persone a lavoro per e con gli immigrati, che da decenni stanno tessendo le fila di un dialogo che si rivela possibile. Un’esperienza che può e deve proseguire. Ne va della stessa sopravvivenza della vita civile.

16 settembre 2008

tra colleghi

- hai visto i telegiornali? nelle altre scuole stanno manifestando, organizziamoci pure noi...
alcune insegnanti hanno messo il segno di lutto al braccio, altre si sono fatte trovare stese davanti alla scuola come segno che la scuola è morta.
-qua manco questo possiamo fare. qua siamo già morti. non teniamo niente da manifestare

14 settembre 2008

prima del primo giorno di scuola

Belli davvero i ragazzini lombardi il primo giorno di scuola. Con la divisa azzurra e rossa che ben faceva risaltare il tailleur color avorio della Ministra. Sono loro gli alunni ideali. Disciplinati, in fila per due, pronti a recepire quei valori antichi ma sempre attuali che il governo sta sdoganando giorno dopo giorno. Bellini assai!, direbbe un insegnante meridionale.
I nostri bambini invece sono ancora qui, nel parco a giocare, oppure a casa davanti alla tele, o a dare una mano a mamma e papà. Fino a lunedì prossimo, quando indosseranno anche loro il grembiulino, come hanno sempre fatto, d’altronde.
Il fatto è che la scuola non si fa solo a scuola. Dove mandare i figli, quale insegnante scegliere, quale istituto preferire, come avvicinare la tale direttrice per inserire i propri figli nella classe giusta sono discussioni che le mamme fanno da balcone a balcone, oppure attraverso una capillare rete di telefonate e di conoscenze. Si va a parlare con tizio, ci si fa presentare da caio, si chiede la raccomandazione a sempronio. Mica solo la Gelmini vuole il meglio per i nostri bambini.

Il fatto: in una classe ci sono due bambini grandi quasi quanto l’insegnante, i bottoni del grembiule taglia 95 a mala pena si abbottonano, anche se loro andranno appena in seconda (per avere il senso delle proporzioni un bimbetto di prima, corporatura normale, indossa 65 massimo 70).
Insomma i due, grazie alla loro mole, al temperamento sfacciato e a tante altre caratteristiche che rendono unico ogni alunno, si sono agevolmente guadagnati la fama di bulli della scuola. Picchiano i compagni, spuntano nei quaderni dei compagni per far attaccare le pagine, rubano le merende degli altri e le mangiano prima dell’orario di merenda. Forse da quest’anno si potrà mettere u cinque in condotta, chissà. E poi che si fa, si boccia in seconda elementare? Verosimilmente l’anno dopo avranno ancora più fame.
Andiamo avanti con la storia. Un giorno un piccoletto torna a casa con un “orologio” sulla pancia. L’orologio, spiega alla mamma, è il segno di un morso che ha ricevuto, e le impronte dei denti rappresentano i numeri.
I genitori, ovviamente, si arrabbiano, vanno dalle maestre e dal capo d’istituto. Che altrettanto ovviamente spiega ai genitori quanto siano difficili i bambini di oggi, quanto sono poco secolarizzati etc etc. I genitori chiedono di cambiare classe, vogliono un nulla aosta, ovvero un documento che consenta loro di scegliere un'altra scuola dove le pratiche di cannibalismo siano evitate o ridotte al minimo. Ma, si sentono dire, ovunque ci sono elementi di problematicità, e poi il bambino si è già inserito, ha già intrapreso un processo di scolarizzazione. E’ meglio lasciarlo lì.
Va bene, l’anno passa tra alti e bassi: qualche calcio, qualche pagina di libro strappata, ma niente di che.
Caldo pomeriggio di settembre. Squilla il campanello, il piccolo ha già comprato il diario, i quaderni, l’astuccio nuovo. L’estate ha portato via un po’ di ricordi sgradevoli e lui ha pure voglia di tornare a scuola, di vedere le sue maestre.
“Io mi faccio afferrare per pazza!” urla la mamma di una compagnetta entrando. Lei ha già saputo la novità: nella classe loro sta per arrivare un altro bimbo già noto in tutto l’istituto per aver trasformato gomme, barattoli di colla e pennarelli in oggetti contundenti lanciati contro insegnanti e compagni. Allarmate le due contattano le altre mamme. Parlano, discutono, si scontrano su posizioni diverse senza cavare un ragno dal buco. Il diritto all’istruzione non si tocca. Io tolgo mio figlio di là. Tutti i bambini devono andare a scuola. Adesso mi informo per una scuola privata. Ma perché tutti i malamente in una stessa classe? Andiamo a parlare con il capo di istituto. A quale istruzione si ha diritto in una classe con un iperattivo, due bulli e altri venti ragazzini?
Alla fine le mamme si salutano a mala pena, ciascuna stretta alle proprie certezze pedagogiche, convinta di aver subito un torto. Pure loro vogliono compagni ideali per i propri figli. Compagni belli, bravi, con il grembiule blu e il colletto bianco come si usa qui. Invece le classi, tutte le classi, sono fatte solo di bambini reali. E non volerlo capire è un bel problema.
“Si, ma tutti noi li dobbiamo risolvere i problemi del mondo?” sbuffa l’ultima che esce dal palazzo sbattendo il cancello.

04 settembre 2008

o professore, la scuola e "loro" di napoli


Settimana di rientro a scuola per noi prof. Ancora con l’abbronzatura, i vestiti leggeri e l’aria di vacanza che piano piano va via. Anche se è tutta l’estate che si parla di scuola, con le frasi della ministra che fanno il giro dei giornali, un decreto zeppo di novità varato gli ultimi giorni di agosto, le timide risposte dei sindacati e i primi malumori che si mescolano agli impegni di sempre: collegi, riunioni di dipartimento, assegnazione delle classi eccetera eccetera.
Gli studenti chiudono con gli esami di riparazione (no, non si chiamano così ma ci somigliano abbastanza) e si godono gli ultimi giorni di festa; gli zainetti, i diari e i quaderni griffati occhieggiano dalle vetrine; i precari a Caserta fanno la notte davanti al Provveditorato (no, non si chiama così ma ci somiglia abbastanza); in tv appaiono i docenti, quelli veri e quelli finti (che però non si somigliano per niente).
La preside di un liceo romano annuncia la sua ricetta smontabulli: punizioni dantesche – per contrappasso e analogia – per ogni guaio combinato. Dall’America arriva l’inquietante notizia dei docenti a cui è stata concessa licenza non già di uccidere ma di portare armi da fuoco in classe per reagire alle sempre più frequenti stragi scolastiche. Accanto a loro, in altri spazi del palinsesto, i prof della fiction. Fresca e tosta, con la faccia simpatica di Irene Pivetti la docente di Provaci ancora prof targata Rai, oramai alla terza edizione. Solo il promo per adesso, girato in classe con ragazzoni sorridenti seduti tra i banchi. Si è appena conclusa su Canale Cinque l’avventura televisiva de ‘O professore, che ha il volto affilato e ricco di storia di Sergio Castellitto, qui nei panni di Pietro Filodomini insegnante di frontiera nel quartiere Sanità di Napoli.
Un gruppo di trentasei ragazzi scalmanati, che della scuola non ne vogliono proprio sapere, resi precocemente adulti dalle famiglie disgregate, dalla disperazione dilagante nelle strade, dalle promesse lusinghiere della camorra. A lui, al professore, un passato da bombarolo, un presente ricco di inquietudini e di rimorsi, il compito di insegnare italiano e soprattutto a credere nella vita. Sembra impossibile, eppure alla fine, ci riesce: a dare un senso alle loro corse in moto, alle scommesse clandestine, agli incontri con le persone sbagliate. Ci riesce nonostante, anzi, in virtù dei propri fallimenti. Perché questa è la scuola, qui, in questa città. Una città nera, dice Davidiello che si è fatto i capelli biondo platino per protesta, “una città come una aiuola che fa feroci”, spiega una ragazzina che dopo mesi di silenzio cita il verso di Dante.
Vista dall’alto la terra sembra una aiuola di fiori, mentre in basso gli uomini non si accorgono di tanta bellezza e combattono tra loro. “Così è Napoli”, chiosa lei mentre al presidente e agli altri commissari si accappona la pelle.
Napoli, già. Un vero e proprio spot pubblicitario, esteso a tutto il circondario. Berlusconi ci viene con la ramazza a togliere la spazzatura, Mariastella Gelmini attratta come una calamita verrà a Casal di Principe ad inaugurare l’anno scolastico. Qui incontrerà gli studenti e quei docenti meridionali di cui conosce bene i difetti e – l’ha detto dopo, ma l’ha detto – anche i pregi.
Orta di Atella, Pollena Trocchia, Agropoli, Sessa Aurunca, Araino Irpino o qualsiasi altro paese della Regione ovviamente non avrebbe avuto lo stesso effetto simbolico. Casal di Principe è glamour, è la wast lande che lo Stato raggiunge e rimette in sesto. Forse persino entro la fine dell’anno scolastico. Per gli altri istituti, sparse nei piccoli e grandi comuni, la Ministra ha promesso monitoraggio costante e valutazione on line. Cosa tutto questo significherà non è dato di saperlo. Bisognerà aspettare il suono della campanella. Manca davvero poco oramai.


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