Scritto sui banchi

28 ottobre 2005

Compagni di scuola ai tempi del web

Le mie prime alunne quest’anno hanno compiuto trenta anni e hanno deciso di festeggiarsi. Di ritrovarsi dopo dodici anni dalla maturità. Una chiamata alle armi partita da due ragazze che si sono messe sulle tracce delle compagne nate nel 1975. Sembra solo un’idea carina, invece è stato un lavoro durato quasi un mese. Con i numeri di telefono del vecchio diario sono riuscite a trovare solo le amiche che da casa non si sono mai allontanate, quelle che dopo la scuola si sono sposate, hanno fatto i figli e poi li hanno affidati alle loro madri. Ne hanno trovate tre, chiamando a casa dei genitori a ora di pranzo. Facile. Però è stato difficile disincagliare la conversazione da problemi casalinghi e da lamentele di vario tipo. Alla festa due non sono venute: febbre dei bambini una, marito fuori sede l’altra.
Poi è stata la volta della ricerca dei cellulari, che negli anni Novanta non tutte avevano. Almeno cinque sono emigrate al Nord: per amore, per studio, per lavoro. Hanno risposto con accento vagamente settentrionale ma è bastata una vocale per svelare le più tenaci mistificazioni fonetiche. Infine le mail, una elettrizzante catena di Sant’Antonio che ha coinvolto alunne e qualche prof.
Alla fine si sono accordate per una torta gigante con candeline da spegnere in un locale alla moda non lontano dal loro liceo. Un roof, c’era scritto sull’invito. E io ho temuto perché non sapevo cosa aspettarmi. Una bella sala panoramica sulle luci della città, tutto qui.
Nel “roof” si sono presentate quindici bellissime ragazze. Dovrei dire donne, ma per la prof le alunne sono sempre ragazze. A mo’ di tappezzeria, c’eravamo noi, tre insegnanti. Per l’occasione, le quindici hanno portato: i loro fidanzati storici (stesso atteggiamento blasè di quando aspettavano le fidanzate fuori il portone della scuola: sembravano stessero facendo un favore a qualcuno. A chi?), i mariti, di prima e anche di seconda scelta, le foto dei bambini, qualche amica del cuore.
Una bella serata, punteggiata di ricordi di scuola, vecchie solidarietà, rugginosi rancori, reciproche curiosità. Una girandola di sguardi, una dentro gli occhi dell’altra, a cercare il profilo del proprio volto, a indovinare le piccole rughe nascoste dal trucco. A nascondere le imperfezioni della vita: almeno per una sera. Tutte insieme dietro la torta, spengono le candeline e sorridono per la foto. Io sono dall’altra parte della macchina digitale. Sorrido anch’io. E guardo prima di scattare: Ilaria, la migliore della scuola, fa la dj in una radio e non è riuscita a superare un solo esame all’università; Giulia, che è sempre stata brava e adesso è un’avvocatessa di successo; Rita, chi l’avrebbe mai detto, una sfilza di sei e mezzo presi per forza di inerzia è diventata un’ottima dottoressa; Ornella master in scrittura creativa che prepara i volantini per Carrefour. Mi ha raccontato della sua casa milanese e dei faticosi affanni che si celano dietro ogni dicitura di prezzi e prodotti. Francesca ha svoltato con un marito ricchissimo, veste come una modella ed è qui per prendersi una bella rivincita.
Prenditela Francesca, questa rivincita. Se mai serve a qualcosa. Le traiettorie della vita sono così imprevedibili. Compagni di classe: quelli che hanno fatto i tonfi li conosciamo tutti. Viene lo scoramento persino a guardarli. Quelli bravi a scuola che non reggono agli esami della vita. Quelli che prendono il diploma, lo dimenticano e finalmente sono felici. Fanno gli allenatori di pallavolo, aprono boutique, si impegnano nel sociale. E poi loro: i disel. Lenti e diretti come vecchi treni espresso. Non saltano una fermata, vanno solidi, forti, ignari dei convogli che fanno veloci, non perdono di vista la meta. Arrivano in ritardo (talvolta pauroso) ma arrivano.
“Dite cheese”. “Cheese proffina!” Proffina?! (Ma come fanno a chiamarmi ancora così? Sarà che pure noi per i nostri alunni siamo sempre uguali. E io per loro sono sempre: proffina, come quando ero l’insegnante più giovane della scuola).

20 ottobre 2005

pedagogia al cioccolato: a scuola da tim burton

Irresisibile. Come il cioccolato. Come un film di Tim Burton. La Fabbrica di cioccolato è tutto questo e molto di più. Una storia sul filo della credibilità, personaggi paurosamente ed eccessivamente realistici, scenari fantastici che neanche i sogni più colorati del mondo riescono ad immaginare mentre suonano musiche e canzoni improbabili.
Una fabbrica di cioccolato e un eccentrico proprietario. Ama se stesso molto più di quanto odi i bambini. Eppure spedisce per il mondo cinque biglietti d’oro. In palio: l’ingresso nella sua magica azienda, la disneyland dei dolciumi, dove la meraviglia si può sentire, toccare, annusare, ascoltare e infine mangiare. Il mondo sembra trasformarsi in una gigantesca caccia al biglietto. Il freddo pungente dell’inverno è scaldato dall’attesa e dalla speranza. Persino il poverissimo Charlie è riuscito con un colpo di fortuna (e un colpo di vento) a trovare l’ultimo biglietto.
Eccoli: in cinque con i rispettivi genitori. Davanti l’ingresso della fabbrica. Carichi di attese. perché tutti – meno Charlie – hanno voglia di vincere il superpremio.
Un concentrato della peggiore infanzia contemporanea: il bambino ingordo e obeso; la piccola prepotente e presuntuosa; la competitiva ossessiva; l’aggressivo videodipendente.
Bambini terribili, odiosi, fastidiosi. Impossibili da guardare. Li abbiamo cresciuti così.
Bambini specchio dei genitori. L’inquadratura si allarga e il bambino obeso è accudito da una mamma paffutella e avida di cibo, la prepotente ha accanto un papà che non ha mai pensato si potesse scontentare la figlioletta; la competitiva è il clone di sua madre capellibiondisorrisoestereotipi alla moda; il terribile Miki tv ha un genitore altrettanto alienato dalla vita, nonostante l’aspetto mite e disarmato. E Charlie, l’unico cresciuto tra stenti e privazioni, ha accanto a sé un nonno rubizzo e tenace. E’ lui che gli insegna la via dello stupore e della meraviglia. Passando per i dolci sentieri dell’amore e della famiglia.
Ma è appena entrati in fabbrica che inizia la lezione di pedagogia al cioccolato. Quella alla Tim Burton. Entrate bambini. In questo regno che è della fantasia ma è il solo che fa capire qualcosa della vita vera. Ed entrate anche voi, adulti, troppo impegnati a chiedervi cosa è vero e cosa non lo è. E alla fine non capite un bel niente. Un paio di prove – di coraggio, di iniziazione, di ammissione (non è il nome che conta…) – e i bambini precipitano nei loro insopportabili difetti. Cadono nella ingordigia, si gonfiano per la sicumera, precipitano nella spazzatura dell’ arroganza e finiscono nella piccolezza della tv.
Come nell’inferno dantesco, è la legge del contrappasso che vige nella fabbrica di cioccolato. Efficace, didascalica, di sicuro effetto. O quasi. Non tutti hanno capito. Non tutti i genitori, non tutti i figli. Ma alla fine qualcosa è cambiato. Nonostante tutto, nonostante i genitori siano sovente la rovina dei figli, persino Willy Wonka ha scoperto la bontà della famiglia. A patto che si tratti di una famiglia bizzarra e un po’ matta, che vive felice fuori dal mondo.
Pedagogia al cioccolato. Magari si potrebbe assaggiare un po’...

03 ottobre 2005

sui banchi: la frase più bella

Stamattina io e i miei studenti di terza ragioneria abbiamo dovuto cambiare classe. Ragioni tecniche difficili da spiegare e che in parte nemmeno abbiamo capito. Per me niente cattedra. in compenso ho avuto il privilegio di un bellissimo banco pieno di scritte, persino incise con il temperino.
Brevi sintagmi, frammenti poetici, urla d'amore. Alcune scritte si potevano leggere ad alta voce, altre le ho dovute censurare.
E voi? qual è la frase più bella che avete scritto sui banchi? o quella che avete letto ma avreste voluto scrivere?

02 ottobre 2005

Patatine e compagni di banco, immigrati

“Da Mc Donald, mamma. Ci dobbiamo andare per forza. Non ci provare a fare la no global con noi!”. Troppo svegli questi bambini di oggi. A sette anni mio figlio già mette in crisi i miei insegnamenti. Crisi poi! Io da Mc Donald li ho sempre portati. Anche se più e più volte ho tentato di spiegargli come funzionano le cose, lì, nel mondo dell’I’m love in it. Gli ho detto che quell’amore così universale e globale era una finta, un trucco da bravi maghi del colore e delle immagini.
Il nostro pranzo da Mc Donald alla stazione di Napoli si consuma in un tavolino a ridosso di altri quattro. Di fronte a noi una cinesina tiene in mano una scatolina rossa come se fosse un panino, addentando le patatine che le sfuggono di qua e di là. Alessandro sembra un tedesco accanto ad una famigliola di nordafricani con le bambine “ricoperte di treccine”, Paolo guarda ammirato il vassoio stracolmo dei nostri vicini americani. Li guardo e penso che loro il mondo stanno imparando a conoscerlo così. In scala uno a uno tra i tavolini di un fast food.
Per almeno tre anni, quando frequentavo la scuola elementare, la maestra ci faceva partecipare ai concorsi tipo “disegna l’Europa”. Noi facevamo girotondi di bambini e bandierine. Ci mettevamo eschimesi, cinesi, africani. L’Europa, ma non sapevano davvero cosa fosse, ce la immaginavamo così. Ci suggerivano di immaginarcela così: con bambini di tutto il mondo che si davano la mano. Che venivano dall’Africa e dal Polo Nord a fare il girotondo in Europa. Sullo sfondo blu del cartellone.
Nello spazio dei giochi da Mc Donald a Caserta, le capriole e i salti dei miei bambini si contraggono in un universo molto più ridotto. Una breve ragnatela di scale, reti e scivoli di cinque metri quadri in cui incontrano - diciamo si buttano e ricevono addosso - tutti i bambini della provincia: belli, chiassosi, irruenti, mai stanchi, sempre sudati. Conoscenze che durano una sera, ma che regalano un frasario e un catalogo di imprese che non dimenticheranno facilmente.
“Tendete la mano ai compagni immigrati”, ha detto Ciampi in apertura dell’anno scolastico. Mio figlio comprende il significato del termine “immigrato” così come io alla sua età comprendevo la parola “Europa”. Con la differenza però che lui gioca con Nicole, saluta un lavavetri diventato suo amico e regala i soldini agli slavi che vengono a suonare “O sole mio” sotto casa nostra la domenica mattina. “La scuola renderà cittadini gli stranieri. Il dialogo vinca l’intolleranza”. Io li trovo sempre condivisibili i discorsi di Ciampi. Credo ci sia una profondità e una ricchezza molto più intensa di quello che sembra a prima vista. “Tendete la mano ai compagni immigrati”. Non possiamo fare diversamente. Ce ne sono 360 mila nelle scuole italiane. Anche se poco presenti al Sud. Ma come? Come renderli cittadini – non solo gli immigrati, ma anche gli italiani - quali parole utilizzare per tessere dialoghi capaci di vincere l’intolleranza?
“Lo sai che le patatine di Mc Donald hanno un poco di zucchero e un poco di sale proprio per piacere a tutti?”. Ma guardalo, quel furbetto di mio figlio che sta ripetendo i miei discorsi per attaccare bottone con la bambina “ricoperta di treccine”. Un poco di zucchero e un poco di sale. Però! Non dico sia una cosa fattibile a scuola, questo no. E probabilmente neanche condivisibile. Ma il doppio dosaggio delle patatine mi insegna che una strada bisogna comunque cercarla.

Dal registro all’sms: niente più filoni

Lui è in motorino a pochi metri da scuola. “Buongiorno professorè”. “Ciao, buongiorno”. Lo saluto velocemente. Sono quasi in ritardo. E soprattutto: non ho ancora imparato il suo nome. E’ l’esercizio di noi prof i primi giorni di scuola. Alla seconda ora ho lezione nella classe dove mi aspetto di incontrare il mio alunno centauro. Il suo posto è vuoto.
“Ma se l’ho visto stamattina?” chiedo al compagno di banco che mi conferma l’assenza.
“Professorè, è andato a comprare il regalo alla ragazza che fa i diciotto anni”. “Ha marinato la scuola!”. “Quasi…”. “Come quasi? Se non c’è ha fatto festa” . “Sì ma i genitori lo sanno”. Ho capito, ma per me comunque è assente senza una ragione valida. Lascio cadere il discorso e incominciamo la lezione. Bel problema, questo delle assenze. Come si fa a motivarli alla presenza? Oppure (almeno): come evitare di fargli fare filone?
Anno nuovo, idee nuove. Inghilterra. Scuola elementare. I piccoli entrano e toccano con la mano uno schermo. L’impronta è subito rilevata e l’eventuale assenza subito comunicata via mail alla famiglia. E’ solo un esperimento. Sembra sia necessario a ridurre i tempi dell’appello per dare più spazio alle attività didattiche (ma quanto sono lunghi questi elenchi inglesi?). Contano di estenderlo anche ad altre scuole. Impallidisco alla sola idea di una simile installazione in un qualsiasi istituto nostrano.
Roma. Scuola superiore. Rilevazione immediata delle assenze e comunicazione via sms ai genitori.
La mamma è imbottigliata nel traffico, cerca di parcheggiare da almeno un’ora e dlin: “Rilevata assenza Rossi Marco Prima B”. Proprio adesso che era riuscita a trovare un posto per la sua machina! Verosimilmente chiamerà o manderà un sms a suo figlio chiedendogli: “Dove sei?”. E un altro al padre: “Tuo figlio ha fatto festa a scuola!”. Di bustina in bustina la mattinata procederà nel peggiore dei modi per tutti i membri della famiglia. Mai più filone, pensa Rossi Marco Prima B, esasperato dalle arringhe via cellulare.
Dal grande fratello ai piccoli cugini, questi sms che tessono reti tra noi e il mondo. Ragnatele fitte fitte a cui sembra impossibile sfuggire.
Bbrrrr. La lezione è quasi finita. In classe arriva un sms. Il mio alunno avverte che ha finito le sue commissioni. E ha pure portato il regalo. Il compagno di classe digita di nascosto i tasti per la risposta. Ok, filone riuscito: si vedono tra poco. 11.55 fuori scuola.
E li vedo anch’io, insieme.


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La scuola è un racconto. Scritto sui banchi continua sul web ogni settimana. Con storie, immagini e dialoghi.

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