Scritto sui banchi

29 marzo 2006

dei mostri che vanno giù, in versi


Ho sempre sentito Bari come una delle mie città. Continuo ad attraversarla, a leggerla, ad amarla. E continuo ad essere attraversata da questa città in cui ho vissuto tanti anni. Con l’ostinato desiderio di conoscerla e comprenderla. Lungo le strade ortogonali fasciate dai palazzi pieni di smog, scheggiata appena di verde – fioriere di cemento, alberelli tristi, qualche parco - con il mare che lambisce le vicende complicate di chi ci vive. A volte mi chiedono: se fossi rimasta a Bari avresti scritto Scritto sui banchi? La risposta è no. Non solo perché a Bari facevo altro. Ma perché ogni città ha un suo modo di avanzare pretese ai suoi abitanti. Quel libro è nato altrove. Ma questa è un’altra storia.
Stamattina a scuola ho assegnato un compito sull’ambiente. Cosa sono le ferite dell’ambiente? Mi ha chiesto un alunno leggendo la traccia. A casa ho trovato una mail di Leo Palmisano, splendido amico di letture e scritture. (Oltre che poeta, regista, ricercatore…va bè, sa fare, bene, tante cose). Parla di Punta Perotti. Un ecomostro, un coltello conficcato lungo la costa del litorale pugliese. Quando verrà giù una delle ferite della città di Bari sarà rimossa.
La mail di Leo è troppo intensa per non poter essere condivisa:

Per tutti, valga questo come omaggio. Dopo anni di attesa, di una demolizione che ci ha stretti attorno a un nucleo essenziale di idee e valori: quelli di civiltà, di bellezza e di democrazia.
PUNTA PEROTTI GIÙ
(Acrostico per la città presente e futura)

Più perché pari posare perenne,
Unta d’unguento od usanza urticante,
Nube d’acciaio e cemento cadrai!
Troppi timori a tenerti là in piedi.
Ai begli alloggi d’abuso abusato,
Pieni di vista sul mare e privati
Ecco che esterno: erodetevi e presto!
Rotto di rabbia e rancore non resto
Ora ch’è l’ora onorata di guerra:
Tutto si trituri, pure il timore!
Tiri il tirante la trave per terra!
Irto d’istanze ignorate ad errore
Grido con gola che gode: vai giù!
Idolo in pietra, di colpo vai giù!
Ù, giù, giù, giù, giù, giù, giù, giù, giù, giù!

Leo Palmisano
(marzo 2006)

23 marzo 2006

nello zoo, con isabella santacroce


“La realtà per me ha il rumore di una porta sbattuta”. Zoo, il libro di Isabella Santacroce, ha per me il rumore di 125 porte sbattute. Ogni pagina: un tonfo secco, un sussurro, un colpo al cuore.
La realtà per me ha il rumore di una porta sbattuta. Lo dice la protagonista del romanzo. Una trama secca e irsuta. Con tanti grumi di violenza e dolore.
Un libro durissimo, Zoo. L’ho letto in un paio d’ore, ho avuto gli incubi per una notte intera. E nei giorni successivi l’ho dovuto rileggere. Affondando dentro la storia e la scrittura. Si leggono così i libri, prima delle presentazioni. Zoo va in scena il 15 marzo alla libreria Guida di Capua. Isabella Santacroce arriva chiusa dentro un lungo paltò nero. Sarò io a farle un’intervista. intrecciando le mie domande con quelle del pubblico. Partiamo dai personaggi: un Padre, una Madre, una Figlia. Niente nomi solo esistenze che galleggiano nel vuoto della vita. Maldestri tentativi di comunicazione. Relazioni scheggiate. Ferite. Che feriscono. Amori disperati. Quello del padre per la figlia, quello della figlia per la madre, di cui sente continuamente, incessantemente la mancanza. Sino alla morte. Perché la famiglia è questo, dice l’autrice: un mondo, un intero mondo dove la vita e la morte si toccano e si sfiorano di continuo.
Una madre stupenda, che ha un negozio di abbigliamento. Allestisce con cura le vetrine e devasta la vita casalinga. Un appartamento in penombra divenuto, appunto uno zoo. E lei, la madre, la più crudele delle molestatrice. Anche quando ha voglia di far indossare vestiti speciali a sua figlia esile e scialba. O quando traveste il marito da donna.
Sono importanti i vestiti per Isabella. Dentro e fuori le pagine del libro. Ho letto che disegna lei i suoi abiti. Quello di stasera è di velluto, ha delle rouches sulle spalle ed è lungo sino alla caviglia, un’aria vagamente romantica, incupita dal colore scuro. Verde petrolio, direi.
Ha scritto il libro perché una persona le ha regalato il dolore di questa storia. Una storia vera, raccontata per un mese intero. Registrata su audiocassette e poi riascoltate dalla scrittrice durante la stesura del romanzo. Di notte, nel silenzio, mentre il mondo era immerso nel buio.
A Isabella non piace la luce. Esce poco di giorno, in genere protetta da grandi occhiali scuri. E quando, nel corso della serata, Rosangela Betti, l’amica che l’ha accompagnata qui nonché la “sua fotografa”, prende la macchina fotografica, lei, Isabella un po’ si arrabbia. Non le piacciono le foto. In più non sopporta il flash. Già, Rosangela. Non le ruba la scena, ma sicuarmente, anche lei è tutta da guardare. Veste come un dandy ottocentesco, fogge maschile per pantaloni e panciotto, abbinati a lussuosi accessori di seta. E un paio di guanti di pizzo nero, come quelli di Isabella. Però Rosangela ha anche un grande anello dorato da cui sprizzano bagliori di eccentricità e simpatia.
I discorsi con Isabella continuano. Il pubblico ha voglia di sapere. Perchè ha scritto che l’infanzia è una droga potentissima? Ha voglia di trasformare in film i suoi libri? Usa la penna o scrive direttamente al computer? Le risposte sono diritte e precise. Senza sbavature, come una linea di eye liner tirata sulla palpebra. L’infanzia è il tempo dell’immaginazione. E poi le madri quando sono incinta rilasciano una sostanza simile all’oppio, che passa direttamente al bambino, che vive tutta la pienezza della sua vita in quei primi anni. I suoi libri: Lovers è già un film, uscito in Inghilterra. Quanto a lei, no. Non si vede ancora come regista. Deve crescere prima nella scrittura. Tra penna e computer, senza dubbio la penna. E’ come un’antenna, capace di captare tutto.
Nel frattempo, gli sguardi del pubblico captano altri particolari. Come sono leziosi quegli stivali chiari, dice una signora in terza fila. E’ chiaro quello di Isabella è un make up molto complicato. Fatto di cosmetici, abbigliamento e parole. Parole che sceglie e varia a seconda delle circostanze.
Perché indossi la maschera, Isabella? Si distrae osservando l’arredo della libreria, i quadri che sono esposti. Arancioni, a loro modo anche loro eccentrici. Viene voglia di prendere un coltello, dice lei. Lascia perdere, Isabella. Meglio chiudere. Piuttosto: la maschera? La realtà non mi piace, risponde. E quindi devo essere io a decidere come e quando incontrarla.
La serata è finita. Isabella lascia lo zoo. E come alla fine di ogni presentazione, una lieve euforia, nel giro di autografi e di saluti. I lettori: ognuno a infilarsi nella propria realtà. Mi fai accendere? E’ tardi, mi accompagni a casa? Quando ci vediamo?

18 marzo 2006

niente scarpette, per punizione


Bella paffuta, con le lentiggini e gli occhi che ridono. Martina. Otto anni seconda elementare. E’ uscita dal bagno e qualcuno ha fatto la spia. Sicuramente qualcuna di un'altra classe. Perché lei, appena è rientrata (appena, parola grossa: dopo aver fatto, lentamente, il doppio giro del corridoio) è stata bruscamente rimproverata dalla maestra. E quel sorriso segreto, largo largo nel cuore, si è spento e non è comparso più. “Cos’hai in tasca?”. Silenzio denso, profondo. Stringe il pennarello di sua sorella, l’uniposca rosso, quello che scrive dappertutto, stretto tra le dita. “Niente”. Intanto un nodo le stringe la gola e in quei pochi sprazzi di lucidità si chiede chi può essere stato. “Perché hai scritto quelle cose?”. Le parole della maestra sono proiettili. Si conficcano dentro i pensieri e non le permettono di rispondere. “Maestra, stronza sta scritto su tutte le porte del bagno. Alessandra era stata mandata in un giro di ispezione. Proprio lei dovevano mandare a controllare! A Martina fa rabbia che la compagna sia così orgogliosa del ruolo, il suo rimprovero rimbalza su quella dell’amica (amica, poi) e diventa una lode. Magari lo scrive pure sul quaderno. Ottimo con lode, perché è andata in bagno a controllare se era vero che una bambina della II A era andata in bagno e aveva scritto le brutte parole.
Era vero, e l’unica bambina della II A che in quel momento si trovava in bagno era lei, Martina . “Grazie, Alessandra, vai a posto. E non dire le parolacce”. “Non le ho dette, le ho lette”.
“A me mia madre non me le fa dire”. “Io se le dico perdo cinquanta centesimi sulla paghetta”. “Io le dico e pure mio padre e pure mio fratello. E facciamo la gara a chi ne sa di più”. “Azz! che bella famiglia!” risponde Luca, che ha ciccia e saggezza da vendere. La maestra non riesce a governare le frasi che si aggrovigliano e si annodano. Tutti parlano. Solo Martina non dice niente. In silenzio.
La mattina dopo non ha più le scarpette firmate. E’ in punizione. Niente scarpette firmate per un mese. Ma queste qui blu che fanno pure male. Tutta la mattinata a guardarsi quei piedi brutti dentro le scarpe brutte.
Perché mamma ti ha messo in punizione? Chiede la maestra, che sa benissimo il perché – perché della punizione ma non perché la signora Arciello abbia scelto proprio quella punizione – ma vuole che Martina lo dica ai compagni. “Perché ho avuto la nota che ho scritto le parolacce sulle porte dei bagni”. L’avuta lei la nota di biasimo, non Alessandra quella di lode. Oggi parla Martina. Ieri il suo silenzio aveva l’effetto di rendere le domande della maestra ancora più insistenti e fastidiose. Anche se ancora non riesce a parlare alzando la testa. Solo quando la maestra chiede di nuovo: “Perché lo hai fatto?” non sa veramente cosa dire. Con la coda dell’occhio però ha visto la sua compagna di banco che le fa un segno. Tira fuori la punta di un pennarello dalla manica del grembiule e lo mostra a Martina. Oggi vado io, dice facendo più smorfie che lettere dell’alfabeto segreto. Martina sorride e la compagna, pensando sia un cenno d’intesa, chiede alla maestra di uscire. “Si, vai… Allora Martina, perché?” continua la maestra. Quel pennarello non scrive sulle porte, pensa Martina scuotendo la testa. E continua a non rispondere.

10 marzo 2006

notte prima degli esami, il film






L’ultima campanella. Quella dell’ultimo giorno dell’ultimo anno di scuola. Una specie di allarme che avverte che l’adolescenza è conclusa. Una sorta di richiamo che ti sospinge verso un altro te stesso. E segnala che adesso puoi farla finita. Con le paure, con le soggezioni, con le timidezze. Un suono che ti entra dentro e ti fa venire voglia di urlare. E di dire al mondo che tu… che loro... che questi anni… Insomma, le parole un po’ sono inceppate dall’ansia di futuro che si è annidata in questa ansa di libertà che è la fine della scuola. E allora Luca entra nella sala dei professori e tutto d’un fiato lo dice. Glielo dice. Che lui è una merda, un fallito, e che gli ha rovinato la vita. Lui sarebbe la carogna, il prof di italiano.
Che però, scherzo del destino, bussolotto di un esame che è una piccola lotteria, adesso è stato nominato membro interno. E’ proprio una carogna, il professor Molinari - Giorgio Faletti. Lascia sfogare Luca e poi gli spiega che la partita è ancora aperta. Si vedranno agli esami di maturità. E’ l’inizio della fine. E del film Notte prima degli esami, di Fausto Brizzi. Una serie di sfortunati eventi che vanno dalla fine dell’anno scolastico alla mattina degli orali. Una manciata di giorni, tra pomeriggi di studio, scherzi sulla spiaggia e feste in piscina. Amori che si formano, si disfano e si ricompongono. Amicizie che vacillano e reggono le prove più dure. Nel cuore degli anni Ottanta. Tra le extrasistole musicali dei Duran Duran e degli Spandau Ballet e il ritmo cadenzato del pop italiano.
Un salto nel tempo che il regista ha raccontato rovistando armadi e cassetti. T shirt fumettose (da Pippo a Snoopy, passando per Goldrake) e polo a coste larghe per lui, camicette a righe e jeans slavati per lei. Espadrillias rosse e scarpette da basket colorate. Con questo passo si andava incontro al tempo, alla vita. In quegli anni.
Dice poco della scuola questo film. Salvo qualche breve inquadratura di un edificio che sembra ben messo, con ampie librerie, aule luminose dove sostenere l’interrogazione. E i patetici espedienti per dribblare la severità dei prof: bignami a tutta birra, cartucciera originale dell’esercito americano caricata di temi, teoremi trascritti sulla suola di gomma delle scarpe.
Racconta molto dei ragazzi che da quella scuola uscivano. Pochi ideali, pochi sogni. Tranne uno: l’amore. Quello che ti fa dire: “Ho trovato la donna della mia vita”. L’hai vista solo dieci minuti, ma pronunci quella frase con una certezza che non avrai più negli anni a venire. E quella affermazione è paurosamente vera. Comunque vadano le cose. Perché in quel momento lì hai conosciuto l’amore e la strada in salita oramai l’hai imboccata. Anche se poi, lei, la donna della tua vita, o lui, l’amore che occuperà tutti i tuoi pensieri, come il motorino di quegli anni - il Sì della Piaggio - ti lascia a terra nei momenti meno opportuni. E sei costretto ad una fatica pazzesca per pedalare e rimettere in moto. Racconta delle famiglie che lentamente stavano cambiando. Con le mamme che se ne andavano di casa per un altro uomo, o per fare le hostess. E quelle che c’erano, ai figli riuscivano a mala pena a portare un po’ di tramezzini per merenda. Entrate in scena quasi sempre inopportune. Ad eccezione della nonna, magica presenza nella vita di ogni adolescente, la sola che facendosi affiancare nelle vicende di casa, riesce sempre a stemperare i grumi della vita. Racconta delle giornate sgualcite che precedono gli esami. Terribili, certo. Ma intense, piene di vita.
La conclusione del film custodisce due piccoli cammei. Il primo: in cinque anni di scuola la sola cosa che Luca ha imparato è che dei prof non ci può fidare. Mai. Il secondo: secondo voi che lavoro farà Luca da grande?

08 marzo 2006

il posto delle mimose


Un ciuffetto di mimose che sbuca dal portapenne. Qualche ragazzo esibisce una serie di starnuti come “giustifica” per non aver portato i fiori alle compagne. Nei corridoi un po’ di promozione per le feste in discoteca questa sera. Pochi studenti a scuola, tanti in giro ad acchiappare il sole splendente e la mattinata di libertà. Una manciata di auguri misti ai saluti della giornata. “Auguri professorè, firmate qua”: la bidella. Tutto qui. L’otto marzo in confezione regalo, a scuola è alquanto malconcio. C’è chi gli auguri nemmeno li vuole, chi protesta per il calendario punteggiato di giornate consumistiche e vuote di emozioni. C’è chi ha voglia di “sbariare”, di festeggiare ma non sa bene come fare. Una compagna avanza un accenno di riflessione, parla di diritti da guadagnare, di spazi da conquistare. Ma è solo un’increspatura sul mare dei discorsi. Avete tutto e volete pure di più, risponde il compagno. Cos’è questo tutto che abbiamo e questo di più che vogliamo? Lo sapete voi. I discorsi si arenano tra la sabbia dei pensieri scomposti e il polline delle mimose.
Nel frattempo raccolgo i bollettini di versamento per la gita scolastica. Conto e riconto. Manca qualcuno. Lisa. Non può venire. Perché il suo ragazzo non la manda. E’ serena mentre lo dice. Ha lo sguardo di chi è contenta di essere tenuta per mano. Una mano sicura che le ha promesso in qualche modo di accompagnarla lungo altre strade della vita. Adesso ha 16 anni e va benissimo spostarsi da casa a scuola. Con lui, che di anni ne ha 18, e ha pure ricevuto in regalo il motorino. Questa è gita! “Io l’anno scorso per andare in gita l’ho dovuto lasciare”, dice Deborah tutta felice, mentre gioca con le sue lunghe collane di perline colorate. “Tanto poi quando sono tornata lui mi ha chiesto di mettermi di nuovo insieme”. Strizza tutti e due gli occhi, alternativamente. Per far capire che è così che si fa. (ma come si fa a strizzare due occhi alternativamente?)
Mentre le altre commentano ammirate gli astuti stratagemmi della compagna, guardo Valentina che non parla dall’inizio dell’ora. “E allora?” Chiedo senza dire una parola anch’io. “Non posso venire”. E gli occhi un po’ le si riempiono di lacrime. “…?”, faccio io. “Il mio ragazzo”. E non aggiunge altro. Il mio ragazzo non vuole non mi manda è un prepotente ha paura di me ha paura degli altri ha paura di restare solo? Il mio ragazzo cosa? Ma anche questa domanda sarebbe solo una increspatura sul mare dei discorsi sull’amore a sedici anni. Loro in gita vanno a Rimini e del mare azzurro non gliene importa niente. UCF (Unico Chiodo Fisso): le discoteche.
Fine dell’ora. Le ragazze si dividono i mazzolini di fiori che hanno ricevuto, qualche rametto finisce nel diario. Mimose da tenere sotto il banco per alcune, mimose sottobanco per altre.

01 marzo 2006

le porte della percezione


Certe volte i portoni delle scuole hanno un aspetto terribile. Se fuori sono così, viene da chiedersi cosa custodiscono all’interno, su quali cortili si aprono, quali teorie di aule custodiscono, quali giri di scale riescono a contenere.
La mattina arrivo sempre leggermente in ritardo. Per effetto di cause lontane e imprevedibili. Come in uno dei principi cardine dell’ecologia. Se una farfalla sbatte le ali nella foresta tropicale un paio di mesi dopo potrebbe determinare un uragano nell’Oceano Atlantico. Parola di Kornad Lorenz.
Dunque, se la baby sitter trova traffico dall’altra parte della città, se il giorno prima Alessandro ha perso tutti i bottoni del grembiule, se Paolo ha scoperto proprio sulla porta di casa di avere i calzini di colore diverso, mi capita di fare tardi a scuola. Corro corro corro. Sino a quando decine di buongiornoprofessoressa, buongiornoprofessoressa mi raggiungono da un lato all’altro del marciapiede. Non sempre riesco a rispondere: ho ancora il fiatone. Anche loro sono in ritardo. (Sempre per effetto della farfalla che sbatte le ali nella foresta tropicale). Però qui siamo di fronte al portone della scuola. E stanno decidendo se entrare o fare filone. Non hanno voglia di fare lezione: quelli che mi hanno salutato affettuosamente, quelli che hanno ancora sonno, quelli sanno già dove andare.
Tra i tanti, da menzionare un buongiornoprofessoressa! di uno studente che ha incominciato a salutarmi da un paio di mesi e da allora non ha mai smesso. Anche se si trova dall’altra parte della strada. Non è un mio alunno. E io non sono la sua prof. Ignoriamo tutto l’uno dell’altro. Ma riconosco da lontano lo scintillio dell’orecchino e l’allegria della voce che mi saluta. Forse c’è un piccolo record segreto da battere. Tipo: riusciremo a dirci solo buongiorno per tutto l’anno? Oppure: a quanti metri di distanza le nostre voci possono incrociarsi?
Ma gli altri buongiornoprofessoressa sono dei ragazzi che dovrebbero essere con me alla prima ora e invece sono fuori che ancora non sanno che aspetto dare alla loro mattinata. Si può decidere di fare filone proprio sul portone della scuola? Credo di no. E poi se sono lì, sulla soglia, vuol dire che non sono proprio convinti o compatti sul da farsi. Certo, questa non è scuola dell’obbligo, molti sono maggiorenni, spesso avvertono i genitori. Però, secondo me, è meglio stare in classe. A cercare le ragioni per attraversarlo, quel portone. Stamattina li ho costretti ad entrare. So che tecnicamente non si può. Ma non è possibile nemmeno ignorare la loro presenza sul marciapiede della scuola. Potrei scrivere sul registro: la classe è assente. E poco dopo uscire, andare a fare la spesa, tornare a casa, rinforzare tutti i bottoni dei grembiuli dei bambini, sistemare definitivamente le coppie di calzini. Così da arrivare, da domani, finalmente in anticipo. Ignorando gli studenti che sono fuori (se ci sono). Non ci riesco. Ho anche l’alunno-buongiornoprofessoressa! che mi aspetta. E poi magari, a quell’ora, una farfalla sbatte le ali nel portone della scuola. E io non voglio perdermela.


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La scuola è un racconto. Scritto sui banchi continua sul web ogni settimana. Con storie, immagini e dialoghi.

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