Scritto sui banchi

23 settembre 2006

Una sera, a Caserta, Gomorra di Roberto Saviano

I libri non sono lunghi, sono larghi. Credo sia un’affermazione di Manganelli, e poi aggiungeva che certi libri non finiscono mai. Gomorra di Roberto Saviano è un libro talmente grande che ci cammini dentro. Da una parte all’altra del globo. Dalla periferia al centro, dalle banchine del porto di Napoli alle strade dove la città si sfalda e si rapprende in chiazze di capannoni industriali sino qui, in Terra di Lavoro. E insieme a te che stai leggendo si muovono i cinesi che svuotano e riempiono centinaia di container, pusher indefessi che smerciano fumo e erba agli angoli delle piazze e negli slarghi dei condomini, e poi i camorristi, i sacerdoti, la gente normale. Quando hai finito, il libro continua a camminarti accanto, a spiare i tuoi movimenti: ti tiene il passo. E lo sguardo. Perché Gomorra è anche questo: una deflagrazione visiva. Una città, una terra che esplode in mille schegge. E ti restano conficcate dentro le frasi, i pensieri, i gesti. Delle centinaia dei personaggi. E dell’autore. Che è andato in giro prima di te. (Forse per te). Spinto “dal desiderio di capire come funzionano i meccanismi del nostro tempo”.
Le parole di Roberto Saviano sono un fiume in piena, una colata lavica sui pensieri e le riflessioni del pubblico numeroso ieri sera alla Libreria Mondadori di Caserta. Il sindaco, i giornalisti, gli insegnanti, i ragazzi, gli anziani. In silenzio. Tutto il tempo. Un silenzio denso in cui era immersa attenzione, indignazione, rabbia, sgomento, ribellione. Alla fine un applauso lungo, scrosciante. Sincero. “Ho cinquanta anni e vivo ad Afragola. Pensavo di conoscere la camorra. Ho letto Gomorra e ho capito di non sapere niente”, racconta un uomo con una voce vibrante di commozione. “Adesso lo so”.
Già, adesso. Adesso lo sappiamo. E conosciamo pure la solitudine che avvolge l’autore quando si scrive un libro così. Lo ammette, Roberto Saviano, che è solo. E che tornando indietro forse no, non l’avrebbe scritto questo libro. Nessuno ha voglia di credergli. E poi poco prima anche lui l’aveva riconosciuta la necessità della scrittura, l’urgenza delle domande e dei loro agguati. “Seguire i percorsi dei rifiuti e delle discariche significa capire il nostro tempo, le regole politiche, economiche. Come scrittore mi sono immaginato una sigaretta buttata per terra a piazza duomo a milano che di notte viaggia e arriva nelle discariche abusive della Campania”.
La letteratura è anche questo. Una infilata caparbia dentro le domande. Che passano dallo scrittore ai lettori, come un lunghissimo domino cinese. Alla fine il pubblico si muove tra gli scaffali e i volumi in un confuso via vai cammina tra i libri in un confuso via vai dentro la libreria. Per i commenti, gli autografi, una sigaretta all’aperto.
E’ una sera d’autunno dall’aria ancora calda e il cielo di un azzurro che sa già di notte che arriva presto. Dai balconi sbucano ancora piante dalle foglie ostinatamente verdi. Dopo questo incontro si ritorna a casa leggermente straniti, attraversando le strade di una città complicata. “Adesso” ci cammini dentro come tra le pagine di un libro dannatamente bello, intenso e difficile.

19 settembre 2006

le parole di un vecchio maestro, per l'anno nuovo

Due giorni fa a telefono con un anziano maestro. Dopo ho riguardato i lavori che aveva realizzato con i suoi alunni: libri di poesie, giochi di parole, raccolte di calembour. Quasi trenta anni fa. Un modo di insegnare picaresco, avventuroso, in una stagione anche allora ricca di cambiamenti. Che non mettevano, forse, tanta paura.
Era solto partire dagli errori dei bambini. Termini sbagliati, inflessioni dialettali, verbi mal coniugati: li utilizzava come eco di lunghe riflessioni linguistiche. Mai come condanne sociali o personali. I maestri delle elementari lo sanno che non è cosa da poco, essere bambini.
Lui raccoglieva un po’ di errori e iniziava a combinarli, a metterli insieme, a sentire i suoni. Cercava parole per ridere, per capire, per giocare: parole finalmente libere dal peso dell’abitudine, svincolate dalle necessità logiche. Così nascevano le poesie. Piccoli testi per approfondire e dilatare la vita emozionale degli alunni. Era questo il metodo dell’anziano maestro. “Gli insegnanti devono essere sempre aperti al nuovo”, mi ha detto, “è questa la parte più importante del loro lavoro. Proprio perché lavorano con i ragazzi. E i ragazzi sono naturalmente portatori di un futuro”.Un intero anno scolastico per guardarlo insieme, il futuro. Naturalmente…

15 settembre 2006

per chi suona la campanella

I pali della luce, le vetrine delle pollerie, i tavolini delle sale d’attesa dei medici. Qualsiasi superficie è buona per trasformarsi in bacheca. L’importante è farsi notare e stanare potenziali clienti. Incunearsi nel fitto via vai della loro vita quotidiana. Offresi: accompagnatrici per bambini, lezioni private per elementare medie e superiori e, giacché ci siamo, anche la collaborazione per la stesura della tesi di laurea per universitari. Il mese della scuola, è anche questo. Un ricco puzzle di carta dislocato per il quartiere. Mica solo vetrine con quaderni griffati e portapastelli da venti euro. Mica solo file in libreria per libri scolastici nuovi e usati. Settembre è il momento giusto per trovare lavoro accanto, vicino, dentro il mondo della scuola. Per gli insegnanti i giochi sono fatti: o hanno preso la cattedra o devono aspettare le supplenze annuali. Nel pomeriggio però ci si può sempre inoltrare nel fitto sottobosco delle lezioni private. Certo ci sono i prof delle materie scientifiche, che hanno già gli alunni prenotati da un anno all’altro. Guadagnano clienti con il passa parola. Degli amici o dei prof in classe la mattina. Per loro, niente volantini con numeri di telefono penzolanti da staccare. La pubblicità di piccolo cabotaggio è patrimonio di laureate in pedagogia, lettere, scienze della comunicazione, dotate di pazienza (per ragazzini svogliati e genitori indaffarati) e rassegnazione (per un lavoro che tarda ad arrivare e che non riesce a materializzarsi neanche più in un miraggio). E poi ci sono loro, gli ultimi arrivati in ordine di tempo. Ragazzi universitari che si offrono per traghettare i bambini da casa a scuola e ritorno. Per un paio d’ore al giorno trasformano le loro automobili –spesso si tratta delle automobili delle mamme, in verità – in piccoli scuolabus. Dalle 7.30 alle 8.30. Poi vanno a lezione in facoltà. Alle 12.30 ricomincia il giro. Al contrario. Gli appunti delle lezioni di quell’ora le prenderanno dai colleghi il giorno dopo. Ho trovato il foglietto verde di Antonio e Federico. In poche righe offrono affidabilità e divertimento e due numeri di cellulare. “A bordo del pulmino sarà presente un nostro animatore pronto a dare il meglio di se stesso”. Leggo, telefono e mi informo: uno guida e l’altro fa l’animatore. “Raccontiamo barzellette, facciamo quiz, abbiamo un bellissimo cd e facciamo cantare i bambini”. Mi viene in mente l’inno di Topolino, il cocomero tondo tondo e tutta la terrificante colonna sonora dell’estate preconfezionata dei villaggi, di bambini rimpinzati di gelati e giochi al miniclub . “Quanto costa?” . “Trentacinque euro trattabili. Dipende dalla distanza”. Accidenti. Ci possono andare anche gli adulti sullo scuolabus? Tra benzina e tempo per trovare parcheggio si spende di più. E poi quel Katalì cammello non è male. Com’era? “Riesce a carburare con energia solare…”
Solare, lunare, stellare. Quanta energia per inventarsi un lavoro che non c’è.

09 settembre 2006

natasha e le gru

Mi tira i pensieri con insistenza l’immagine di quel bambino abbandonato in un palazzo. Guardo la tv mentre metto in ordine in cucina, Natasha racconta la sua storia. L’intervista procede con domande che scheggiano tutti gli anni vissuti sotto sequestro. Rallento i mie movimenti. Mi fermo sempre più spesso. Il bambino tira ancora i pensieri. E’ quello del romanzo di Levitt letto almeno 15 anni fa. La lingua perduta delle gru. Il piccolino è solo. Non ha mai visto nessun essere umano. Devono costruire un palazzo di fronte al suo, arrivano le gru. Incomincia a parlare con loro, come loro. Le braccia si muovono a destra e sinistra, in alto e in basso. La lingua del bambino, quella delle gru.
Osservo l’adolescenza di Natasha, la bandana mauve sui capelli, la camicia e i pantaloni in gradazione viola; il lucido sulle labbra, l’ombretto perlato sugli occhi. Ascolto la sua storia. Le sue parole. Il linguaggio è colto, attento, curato. Ancor più dei suoi vestiti. Quali sono state le sue gru? Come ha fatto il suo linguaggio a crescere ed evolvere nello spazio angusto di una casa prigione? Le parole hanno bisogno di aria, di luce, di vento. Per mischiarsi con altre parole. Altrimenti muoiono. Rinsecchite dalla povertà, dalla noia, dalla paranoia. Natasha spiega che lei leggeva di tutto, dalle scritture sullo spazzolino da denti alle riviste che “il criminale” portava in casa. E soprattutto guardava la televisione. Che ha trasformato una bambina che parlava bene in una ragazza dall’eloquio ricco ed elegante. Le ha insegnato a parlare e a parlare di sé. La sua educazione sentimentale si è svolta tra talk show e reality. Un apprendistato durato anni. E poi riprodotto alla perfezione. Lei è in televisione (e non a casa con i suoi), si muove a suo agio, abbassa lo sguardo, si tocca il viso, a volte è spiritosa altre drammatica. Il montaggio sapiente degli operatori mostra ora il giornalista ora uno psicologo. Ma è del suo volto, delle sue parole che gli spettatori hanno bisogno. La macchina da presa ritorna da lei. E’ pure bella. Vuole fare l’attrice, dice. Non solo parole. Anche i pensieri, i sogni, i progetti sono stati inondati dalla luce artificiale della tv. Sono cresciuti nella stessa serra. Resto incollata al video tutto il tempo dell’intervista. Davanti a questa piccola gru vestita di viola che snocciola interi anni di follia e dolore.

06 settembre 2006

roba di prima classe

Ovviamente è da giugno che stanno brigando. Sanno tutto delle sezioni, degli insegnanti che ci sono, dei pregi e dei difetti di ciascuno, sanno che cosa accadrà il prossimo anno, chi va e chi resta. E là, solo nella sezione dove gli insegnanti sono più bravi, vogliono che siano inseriti i propri figli. Sono già stati a parlare con la direttrice o con il preside, e lui, lei ha detto che farà quello che potrà. Diciamo che i più raccomandati – quelli che hanno una sorella insegnante, quelli che hanno un amico che è amico del preside – hanno buone possibilità di far capitare i figli in una sezione scelta.
Scelta come? In base alla fama dell’insegnante o del gruppo docente? Scelta tra quante? Tra quelle del quartiere o in tutta la città? Il preside, la preside ha uno sguardo rassicurante ma anche imbarazzato. “Signora, lo sa che questo non si potrebbe, non si dovrebbe fare?” Non è che proprio lo dice, il preside. Cerca di farlo capire che per lui è imbarazzante. Che non è giusto fare le sezioni scelte, mentre altri bambini, altri ragazzi, magari altrettanto bravi, finiscono nelle ultime sezioni. Però, di questi tempi, neanche il preside può permettersi di essere così severo con le famiglie. Altrimenti i ragazzini se li portano da un’altra parte. In un’altra scuola.
E allora? Si può sostenere (io lo sostengo), che le segnalazioni non devono esserci e basta? Perché la scuola deve dare a tutti, sempre, il massimo. “Così tu finisci per non prenderti cura dell’educazione di tuo figlio. Non ti interessa dove va? Se avrà brave insegnanti?” borbotta mia cugina, figlio all’asilo ma si sta già informando sulla sezione che potrà frequentare alle medie. Per le elementari ha già scelto. Anche Giulia, la mia amica segretaria scuote la testa, rimproverando la mia sciocca ingenuità. “Perché nelle sezioni buone anche gli alunni sono buoni. O vuoi che tuo figlio vada in classe con i delinquenti?” I delinquenti, in classe con mio figlio! Certo che no.
Letto sui giornali dei giorni scorsi: “Se uno vuole scegliere un ristorante consulta la guida Michelen. Se uno vuole scegliere la scuola giusta per il proprio figlio deve per forza affidarsi ai sentito dire dei conoscenti”. Inutile negarlo. Il problema c’è. E non si risolve incominciando così presto con la pratica delle discriminazioni. Ci sono mamme che individuano le sezioni giuste della scuola materna. “E se poi il bambino finisce con una maestra isterica?”. Come se la presenza di un docente divenisse garanzia del successo scolastico dei propri figli. Ci sono padri che vogliono per insegnante di matematica al liceo solo il tale ingegnere: “Mio figlio deve andare solo nella A”.
E gli altri? Gli altri ragazzi? quelli i cui genitori non andranno mai dal preside. E forse neanche ai colloqui durante l’anno. Per loro va bene la sezione I, M, Z. “Con i delinquenti”, a sentire Giulia. Ma in prima classe già ci sono i delinquenti?


My Photo
La scuola è un racconto. Scritto sui banchi continua sul web ogni settimana. Con storie, immagini e dialoghi.

Alice.it - Gli appuntamenti con libri
My Photo
Marilena Lucente: insegnante

Per saperne di piu'
Ancora del Mediterraneo
Caserta c'è
Caserta Musica
Gero Mannella
Luisella Bolla
Valerio Lucarelli

Powered by Blogger