Scritto sui banchi

27 marzo 2008

corsi di recupero: who's who?

“Basta professorè, sto a scuola da nove ore!”. Lo so, ha ragione Giovanni, ma le mie due ore di recupero scadono tra venti minuti, e io non posso lasciare dei buchi di lezione. Mi pagano a parte, per questo lavoro. In più, si legge da ogni parte, non ci sono soldi per pagarci (invece io la baby sitter per tenere i bambini il pomeriggio la pago alla fine di ogni lezione).
Forza, facciamola la parafrasi di “Tanto gentile e tanto onesta pare”, o almeno incominciamo a fare lo schema metrico. Almeno è facile come un cruciverba.
“Cos’è lo schema metrico?”, mi chiede Lia.
Ok, ricominciamo di qui: siete in terzo, è programma di prima, ma questo è un corso di recupero e bisogna fare una cura ricostituente di tutto. O almeno provarci.
Introdotti a seguito del computo debiti e crediti, i corsi di recupero sono una realtà oramai da alcuni anni nelle scuole. Se un alunno non ha la sufficienza in una o più materie, gli si offre una possibilità.
Proviamoci ancora, boys. Prendiamo del tempo, togliamo spazio alle lezioni normali e ricominciamo. Quando, però lo sceglie la prof. Di mattina non c’è retribuzione, di pomeriggio sì. Registrino, programmino liofilizzato, esamino, e il corso finisce.
Fino all’anno scorso: con tre debiti non recuperati bocciato. Altrimenti promosso e rifai il corso l’anno successivo. E si poteva anche arrivare agli esami di stato accumulando debiti su debiti.
Sino a quando è arrivato Fioroni e ha detto, più o meno: questa è la bancarotta della scuola, urbi et orbi, indagini ocse e dati istat, i nostri alunni sono veri asini.
Basta debiti zavorra. O si recupera o si boccia. Per farlo, avete 15 ore di corso. Buon lavoro.
E se ne è andato – non lui solo, s’intende, non per sua volontà – ma il governo è caduto e noi siamo rimasti con quel decreto tra le mani.
Le scuole sono aperte di pomeriggio, le pizzerie all’una e mezza piene di uaglioneria – i corsi incominciano alle due e mezza e finiscono alle sei e mezza – i prof strizzano i contenuti e i ragazzini crollano sui banchi. In più, ovviamente, non hanno svolto i compiti per il giorno dopo.
Che si fa? Montano le proteste, le rimostranze dei genitori, c’è stato persino uno sciopero sindacale, una sola ora, a cui nessuno (o quasi) ha partecipato. Come un petardo di natale scoppiato in ritardo, molto ritardo, le rimostranze incominciano a farsi sentire. Adesso che i corsi sono quasi finiti.
E sono tanti, troppi. Trenta, quaranta, anche cinquanta in ogni scuola. Da me hanno ridotto a 12 le 15 ore previste, altrove hanno accorpato le classi. Soldi soldi soldi. Si parla solo di questo.
Ma ci sarebbero ben altri sos da lanciare. Un alunno del triennio, debito di italiano, ha scritto scuola con la “q”. Altro che schema metrico! Devo riprendere dall’abc. Anche io ho bisogno di un corso di recupero per fare il recupero ai miei studenti.

18 marzo 2008

segnali di fumo

Racconta Andrea Camilleri che quando era insegnante in un Regio Liceo Classico della sua Sicilia, ritenendo il suo stipendio insufficiente rispetto al lavoro effettivamente svolto, si faceva pagare a parte dai suoi studenti. Se questi avevano voglia di sapere come andava a finire un episodio dell’Illiade o l’esito di una guerra romana, dovevano sganciare: sigarette. E sempre, racconta Andrea Camilleri, i suoi studenti lo pregavano di proseguire. Più sigarette davano – all’epoca si vendevano sfuse – più imparavano.
Oggi anche lui finirebbe su You tube, nella stessa categoria del prof ripreso a fumare mentre spiega. Con questo aneddoto autobiografico, Camilleri non intendeva illustrare la sua nota passione per le bionde ma spiegava come alunni giustamente motivati – pagare se volete sapere – si predisponevano poi ad apprendere. Facendone esplicita richiesta.
Di segnali di fumo se ne vedono in tutte le scuole. I bagni sono così maleodoranti che quando un ragazzo torna in classe è sempre seguito da una puzza di nicotina, vi sono crocicchi di docenti sfumacchiano beatamente, e ripostigli di scope in cui bidelle e segretarie fanno una pausa sigaretta. Ovunque, naturalmente, campeggiano divieti di fumo.
Anzi, adesso che ci penso, nella mia scuola no. Però non si può fumare lo stesso perché è un luogo pubblico.
Un mio ricordo, ora. Il primo giorno di lezione una ragazza mi ha tagliato la strada, uscendo all’aula con la sigaretta accesa che ha poi lanciato sportivamente nel cortile. Quasi priva di esperienza, sono tornata a casa furiosa e ho scritto una lettera al preside chiedendo almeno di posizionare i posacenere nei corridoi. Pensava fosse una boutade e ne abbiamo parlato con garbo. Da non fumatore, mi ha spiegato che il divieto di fumo a scuola è difficile da far rispettare perché i prof fumano e dunque gli alunni si rifiutano di obbedire ad un “fate come dico io ma non fate come faccio io”. Giusto. Però il posacenere nel bar della scuola l’ho portato da casa, perché sino ad allora le cicche si schiacciavano nelle fessure delle finestre. Ed è l’unico dell’istituto.
Stessa scuola, sei anni dopo. Il corridoio in cui sono posizionate le mie classi ha la forma di ferro di cavallo. Frequentemente mi capita di incrociare un collega che fuma insieme agli studenti affacciati a una finestra (e presumibilmente le cicce le buttano giù) mentre dall’altro lato un altro collega tuona: “Spegnete le sigaretteeeee! Qui venite per studiare, non per fumare!!!!”. Sovente le due scene si svolgono in contemporanea, e tutto ciò rende abbastanza schizofreniche le nostre mattinate.
Anche a me non piace che si fumi a scuola, detesto vedere gli estintori zeppi di cenere e mozziconi con i segni di rossetto, mi sento offesa dalle centinaia di sigarette che si accumulano in cortile a fine mattinata, e fino a qualche tempo fa chiedevo, con cortesia, ai ragazzi in corridoio di allontanarsi, di andare fuori, dove si formano quotidianamente splendidi angoli di fumatori e di fumatrici, assai graziosi da vedere. Sembra di essere in un villaggio vacanza. Poi ho smesso anch’io. Di rimbrottare. Quando ho scoperto che nel luogo più sporco e schifoso della scuola, quello in cui le cicche sono a terra, sul pavimento spazzato vanamente più volte al giorno dalle bidelle, ci fuma solo una persona. Ed è un adulto. Né a lui, né a nessun altro dei miei colleghi avrò mai il coraggio di far spegnere una sigaretta. E allora non lo faccio più – o quasi – neanche con i ragazzi. Continuo a chiedere di posizionare dei posacenere, ma mi sento rispondere che sono illegali e che potremmo, per questo, persino finire su you tube.

15 marzo 2008

quano si consegna un invito 2


quando si consegna un invito ricevi, dopo, sempre delle sorprese.
e per essere, alle 18 30, come recita l'invito, qualcuno si è messo in moto un'ora prima, altri sono passati dal fioraio, altri ancora, nel cuore di una riunione, mandavano sms per dire: sto arrivando. e altri erano già lì. qualcuno che non mi aspettavo, qualcuno che non conoscevo. insime a mariti, sorelle, colleghe, mamme. e così un invito diventa anche un appuntamento con la curiosità, l'amicizia e persino qualcosa di più. e bisognerebbe trovare un modo per dire grazie, davvero a tutti, per ieri sera.

in foto, la quinta e un po' di quarta bì! il fatto è che oggi hanno minacciato di fare festa, e dopo l'invito, mi tocca inviargli le cartoline per l'assenza collettiva. ma forse non, forse basta questo post sul blog. (o no?)

14 marzo 2008

Quando si consegna un invito

Venerdi alle 18 30, presso la libreria guida di caserta, maria carmela caiola e giorgio agnisola presentano "di dove sei". legge anna d'ambra

Un cartoncino di carta color avorio, font elegante e un testo di poche righe. Un invito per la presentazione di un libro, distribuito ad amici e conoscenti, che venerdì, a quell’ora, proprio a quell’ora: Alle 18.30? Faccio un poco più tardi, ho lezione fino alle sette. Non posso, parto alle quattro, week end a Roccaraso prenotato da un mese. Mmmm, è l’orario di punta dei parrucchieri. Devo muovermi un po’ prima, altrimenti non riesco a parcheggiare. Ultima lezione della settimana in palestra. Non è proprio un no. Ma nemmeno un sì. Il venerdì è il mio turno con i bambini, chiedo a mio marito se posso scambiare il giorno. C’è la via crucis in chiesa, appena finisco ti raggiungo. Ci vediamo a casa tua e poi andiamo insieme. Non posso, ho le prove del mio spettacolo. Ci vediamo lì, all together. Mi chiami se dopo fate una pizza?
Bisognerebbe raccoglierli alla fine, gli inviti. E allinearli su un tavolo, costruirci il gioco dell’oca, segnando le distanze percorse, la casella in cui stai fermo un turno, quella in cui si tira un’altra volta. E vedere chi arriva, alla fine.

“Ma non proprio alle 19.00, si sa che si dice così e si fa sempre più tardi”.
“Nooooo! Intanto c’è scritto alle 18.30. e almeno tu provaci ad arrivare in orario?”.


09 marzo 2008

di dove sei, un'intervista


due appuntamenti importanti questa settimana per "di dove sei"
martedì, 18.30 alla libreria fnac di napoli
venerdì, 18.30 alla libreria guida di caserta

nelle presentazioni accadono tante cose, si racconta un libro ma al contempo se ne citano altri, si parla di altri libri, di idee che sono nell'aria, si consegnano storie che troppo velocemente vanno via.
alla presentazione di aversa, la scorsa settimana, è seguita un'intervista di peppe roncioni. e questa è una anticipazione prima che vada in stampa.

Il cumulo di recriminazioni e insoddisfazioni che intasano la vita della protagonista iniziano a venire alla luce apertamente dopo l’inaspettata proposta del marito di trasferirsi in una diversa città. Cosa le manca per dar voce ai propri bisogni?


L’occasione giusta. Per fare il punto in cui siamo, con noi stessi, con i nostri progetti, con i nostri desideri, dobbiamo essere messi alle strette, dobbiamo sentirci chiamati in causa e ricordarci di noi, ogni tanto. Lei deve decidere se andare via. E solo allora si chiede veramente: cos’è che sto lasciando? E a quel punto incomincia il viaggio dentro la propria storia e la propria città.

Tutta la vicenda è immersa nella città di Caserta, passata al setaccio dall’occhio implacabile della protagonista; più la conosce più cresce in lei un incolmabile senso di estraneità nei confronti di quel posto. Perché proprio non riesce a mettere radici a Caserta?

Non c’è Caserta! Non l’ho mai nominata, anche se ho dato precisi segnali di riconoscimento, né tanto meno è mia intenzione disprezzarla. La città in cui si svolge la storia rappresenta una città complicata come tante. In cui è difficile mettere radici, per ragioni che riguardano, come in botanica, a volte la qualità del terreno, a volte le caratteristiche della pianta. Ci sono città che ci fanno crescere e stare bene, dove un piccolo seme può diventare un albero secolare, altre in cui nonostante innesti e cure e diserbanti, la pianta non riesce ad attecchire. Questo però non significa ignorare la città in cui si vive, per un giorno o per decenni, e peggio, non rispettarla, non averne cura.

Colpisce l’abitudine della protagonista e il marito di isolarsi nei momenti in cui devono prendere delle decisioni importanti per la loro vita di coppia e familiare. E’ un male che colpisce solo loro, oppure la loro chiusura deve essere vista una modalità consueta che marca la sostanziale distanza esistente tra gli uomini e le donne?

Chi non conosce l’atroce solitudine dell’essere in due? E questo non riguarda la qualità delle persone, non sempre almeno. La solitudine nasce dal dolore, o dalla paura – di rivelarsi e persino di restare soli. Ma è anche una incredibile risorsa della convivenza umana. E credo sia una inseparabile compagna di uomini e donne, vecchi e bambini.

Descrivi un universo che presenta un doppiofondo, smascherato dal vizio di “osservare” della protagonista. Quali conseguenza ha sulla sua vita questa continua presa di coscienza del fatto che la realtà, il più delle volte, non è come si presenta in superficie?

Questo libro è stato presentato a maggio al salone del libro con un altro titolo: Niente è come sembra. Dopo qualche giorno è uscito il cd di Battiato: Niente è come sembra. Con l’editore e la redazione abbiamo cercato un altro titolo. Ma in controluce, l’idea che dietro uno spazio ce ne sia un altro, dentro una casa si custodiscano storie invisibili, tremende o bellissime, è rimasta. La protagonista ha il vizio di osservare, di leggere, di cercare messaggi, perchè è animata dal bisogno di capire, con ostinazione. All’inizio è sconvolta, basita, ci sono vicende che la lasciando perplessa, che vanno rifiutate: il doppio fondo è pericoloso, custodisce menzogne, cela ingiustizie, differenze, e anche corruzione, malavita. Ma è anche vero che ci sono dei luoghi segreti, dei doppi fondi che sono tali solo perché non hanno la possibilità di uscire allo scoperto, o perché nessuno ha mai guardato in profondità, e sono pieni di tesori. Niente è come sembra: neanche un doppio fondo!

Nel libro sono presenti tante donne che trascinano la propria esistenza senza sussulti, annegando in un’anonima quotidianità. Cos’è che impedisce alle donne di mettere le ali ai propri sogni?

I tacchi? Le snacker? Le infradito d’estate e i camperos d’inverno? Non so rispondere. So che tutte camminiamo con il nostro passo dentro la vita: incerto, elegante, sportivo, marziale, ognuna ha il suo. C’è una dimensione quotidiana che ci chiama, che richiede la nostra presenza, reale, concreta, un insieme di azioni molto semplici, ma ineludibili, a cui non ci si può sottrarre. Se si ha la forza, l’immaginazione e le persone giuste accanto, è possibile traghettarli, questi sogni, nella propria vita. E andarsene in giro con un paio d’ali: a fare la spesa con il proprio compagno, al mare con le amiche, al parco con i bambini, al cinema da sole, e così via.

Tu, di dove sei…e dove sogni di andare…

Dal 1967 sono ufficialmente iscritta all’ufficio anagrafe del comune di Noicattaro, 15 chilometri da Bari. Ma sono andata via alla fine del liceo, dunque sono oltre venti anni che non ci abito più, ma continuo ad andarci, praticamente sempre. E’ dietro l’angolo. Da tutti i posti del mondo, per me, il mio paese, è sempre “dietro l’angolo”. Ma credo di avere diritto di cittadinanza onoraria in certi luoghi che ho frequentato sin da bambina nelle pagine dei libri. Almeno di una ventina che conosco (quasi) a memoria. Ho a lungo frequentato la Roma umbertina di Pirandello e la sperduta Casarola di Bertolucci, Genova, la città fatta di scale di Caproni e le terre desolate di Montale. Ancora scogli, mare e faraglioni di tanti autori siciliani e Napoli, da Boccaccio sino ai giorni nostri. E più lontano, ho a lungo navigato nell’acqua rossastra e violetta della Ballata del vecchio marinaio e camminato nella Parigi di tutti i romanzieri francesi. Ma il posto in cui devo tornare per sentirmi a casa è il giardino delle rose nei Quattro Quartetti di Eliot: “il genere umano non sopporta troppa realtà"
Dove sogno di andare? Niente sogni, voglio essere sorpresa dalla vita, e dalla imprevedibilità degli itinerari, delle fermate, degli incontri…

05 marzo 2008

di cosa parliamo quando parliamo di scuola?

Dicono che la scuola sia un buon cavallo di battaglia per la campagna elettorale. Ma a poco più di un mese dall’elezioni, nessuna discussione seria è stata affrontata. Anzi, sembra essere un argomento imbarazzante. Per comprendere le ragioni, due passi indietro.
Uno. Forse era stato l’anello più debole del governo Berlusconi, il ministero della Moratti, tra riforme brandite a colpi di sciabola, slogan pubblicitari – come le indimenticabili tre i – e colpi bassi ancora non del tutto ammortizzati (soprattutto all’università).
Due. Dopo le migliaia di proteste dei ragazzi, dei genitori, dei giornali ci si aspettava dal governo di sinistra una risposta significativa. Non dico Umbero Eco ministro dell’istruzione, ma qualcosa di simile! Un intellettuale, un maestro, una figura in cui riconoscersi, a cui affidarsi, con cui condividere un percorso. Invece: Fioroni! Un medico, chiamato a risanare lo stato comatoso della istruzione. E tanto gli elettori non conoscevano lui, quanto lui non conosceva la scuola. (in compenso, adesso tutti qui in Campania conoscono la sua segretaria personale, piazzata nelle liste del pd). Il ministro ha lavorato, con il piglio del padre di famiglia, con un buon team di esperti, tirando fuori, ad ogni occasione, la parola serietà. Un po’ di decreti, scacco matto sull’esame di stato e non pochi equivoci sulla questione dei debiti e dei recuperi, affidando ai docenti una complessa contabilità di sufficienze e insufficienze, per alunni buoni e cattivi. Ma, va riconosciuto, Fioroni è sempre stato isolato nel Governo, un diesel che ha percorso lentamente, inesorabilmente la sua strada. E se non fosse stato per quello strale, proprio a seguito della emergenza munnezza, - le scuole sono sacre! – Prodi dell’istruzione, della formazione, in realtà non ne ha parlato mai.
Anche a governo finito, i partiti ne parlano poco. Non sanno che dire, come spesso accade quando c’è molto da fare.


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La scuola è un racconto. Scritto sui banchi continua sul web ogni settimana. Con storie, immagini e dialoghi.

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