Scritto sui banchi

30 ottobre 2008

the day after - un racconto


Ho incominciato a scrivere questo racconto agli inizi di settembre e l’ho ripreso mentre in senato si discuteva il decreto. di educazione e di istruzione ne hanno parlato tutti, in televisione, per strada, sui giornali. fendendo i cortei e attraversando le aule vuote per lo sciopero ho sentito la tristezza silenziosa di molti colleghi e la protesta euforica dei ragazzi. da questa settimana abbiamo una nuova legge, la scuola cambierà volto, speriamo solo non finisca questo speciale momento di riflessione e di condivisione

Maestri non si nasce, non si diventa.

Aveva il telegramma tra le mani, e la paura che si potesse sgretolare. Leggeva e rileggeva. Alla ricerca di una conferma, temendo una smentita: “La signoria vostra è pregata di presentarsi…” Pregata di presentarsi? Ci sarebbe andata in quello stesso istante, se solo avesse potuto. Il suo primo incarico annuale. Niente più inutili convocazioni niente supplenze di qualche settimana, fine delle mattinate con lo sguardo fisso sul telefono. L’attesa era stata infinita, impossibile conteggiarla con normali unità di tempo. Quanto ci aveva messo per diventare insegnante lo calcolava in chilometri: allineate l’una dopo l’altra, tutte le file che aveva fatto dovevano essere su per giù quanto la tangenziale di Napoli. Diploma, laurea, specializzazione. Secondo diploma, supplenze e corsi di perfezionamento. Il vero lavoro era stato quello: allineare titoli di studio e esperienze, tradurli in punteggio, misurare pazienza e frustrazione mettendosi in fila dietro qualche sportello. Di tanto in tanto Alida se lo chiedeva: dove si va dopo aver fatto tutta questa strada?
“Al nord”, avevano risposto al sindacato, puntandole contro l’ago magnetico di una bussola invisibile: “Signorina” - il tono era perentorio – “Se non vuole restare a marcire qui per altri dieci anni deve trasferirsi e fare le domande in graduatoria al nord. Al nord, al nord del nord del nord. Più lontano che può”.
Non esageriamo adesso. Alida aveva scelto invece una bella cittadina del centro nord, quelle gemme di civiltà assai citate nel catalogo dei luoghi comuni: si vive bene, ci sono parchi e biblioteche, i mezzi pubblici sono puntuali e le scuole sono le migliori d’Italia.
A fine agosto era già lì, in un modesto alberghetto affacciato sul parco della città – era vero, c’erano parchi pubblici bellissimi, che nessuno maltrattava – e disfaceva i bagagli. Aveva incartato le scarpe con il giornale della domenica prima. Ancorché stropicciate, le dichiarazioni della ministra facevano il loro effetto.”La qualità della scuola è abbassata dalle scuole del sud. Organizzeremo dei corsi intensivi per gli insegnanti meridionali”. Poi però la ministra si era smentita. Gli insegnanti e le scuole meridionali, chissà.
E’ finita, pensava euforica mentre attraversava il corso principale a passo svelto. Almeno per quest’anno, precisava puntigliosamente a se stessa. L’assunzione definitiva sarebbe arrivata chissà quando. Al ministero del’istruzione avrebbero dovuto scriverlo, come alle file delle giostre: “Tempo di attesa tre anni”. Proprio come al luna park, la tra-fila per diventare insegnante era un insieme di piccoli segmenti, un serpente di persone imprigionato da transenne, a cui dare la sensazione di avanzare, mentre si restava immobili. Si restava disoccupati. Si restava precari. Si restava e basta. In quelle file aveva conosciuto il lato bovino dell’umanità e misconosciuto la sua vocazione pedagogica e didattica. Come lei, tanti che erano in fila, avevano smarrito aspirazioni e desideri. Per questo aveva imparato a considerare il tempo un ingrediente della vita da ignorare. Alida pensava al domani come un ologramma che si sarebbe rivelato senza preavviso: presente di merda, futuro radioso.
Era arrivata. Il cortile della scuola, pieno come uno stadio. Si diresse verso l’entrata zigzagando tra capannelli di insegnanti, chiedendosi cosa cavolo ci facessero tutte quelle persone a quell’ora. A ridosso del muro dell’istituto montavano un palco e contemporaneamente provavano l’amplificatore. “Sa saa prova!”. Fu spinta nell’interno dell’edificio dalla forza dirompente dei decibel. L’ingresso e i corridoi erano invasi dall’odore delle vernici a spray, c’erano striscioni a terra ad asciugare e rotoli di cartelloni colorati poggiati sui banchi. “Tieni!”, prima che potesse ringraziare, una donna con la zazzera rossa le aveva messo in mano un foglio intitolato “Manifestiamoci”. Seguiva un lungo elenco di appuntamenti, di lezioni da tenere in piazza e in altre scuole, persino una notte bianca in tutte gli istituti della città.
Finalmente raggiunse l’ufficio segreteria e firmò il contratto. Un’operazione di pochi minuti mentre nessuno badava a lei. Quando uscì, un uomo con l’aria di chi la sa lunga si accalorava e lanciava cifre tra gli astanti: “Sette miliardi in meno nei prossimi tre anni. Assunzioni bloccate, chiusura delle scuole con meno di cinquanta alunni. Questo decreto è una VERGOGNA!” Le chiamano razionalizzazioni, sono solo tagli. E con questi tagli irrazionali nessuno, proprio nessuno potrà più entrare nella scuola”.
Grazie per l’incoraggiamento, pensò Alida. E in silenzio lo mandò a quel paese. Aveva già guadagnato il cancello ma la signora con la zazzera rossa questa volta le sbarrò la strada. Per le manifestazioni contro la Gelmini – “centinaia, migliaia di manifestazioni” aggiunse con gli occhi chelida brillavano - c’era bisogno del contributo di tutti. “Abbiamo solo due mesi per bloccare il decreto. Ci serve una mano per gonfiare i palloncini, scrivere gli striscioni, non ti proponiamo di fare altro per adesso, perché sei giovane e ancora non conosci nessuno, poi con il tempo vedremo. Intanto puoi dare una mano a tagliare i nastri di velluto nero” Alida riconobbe la faccia stanca e appagata di chi aveva vissuto tanto tempo in piazza, tra cortei, sfilate, girotondi e manifestazioni. “La scuola è morta e tutti devono portare il lutto. Li distribuiremo il primo giorno di scuola”, spiegò Wanda, la collega zazzera rossa, mentre le porgeva un paio di forbici.
Dalle finestre entrava la voce di Daniele. Aveva saputo subito il suo nome: le colleghe non facevano che citarlo, chiamarlo (e corteggiarlo, sbuffava Alida). Ed era l’unico insegnante della scuola: “Bisogna spiegarlo bene ai bambini e alle famiglie il baratro verso cui stiamo precipitando. Altro che maestro unico! L’unica cosa è fare comunità, dimostrare che siamo in tanti”.
Però aveva una voce incredibile, bellissima nonostante il volume del microfono.“Dobbiamo fare tutti sciopero ad oltranza”. Alida ebbe un brivido. Poteva mai incominciare il suo primo anno di lavoro con lo sciopero ad oltranza?
Nei giorni seguenti lavorò tantissimo, dai nastri era passata alla costruzione delle marionette da distribuire ai bambini. Un’altra idea di Wanda, che con il pennarello rosso aveva scritto sopra: non siamo marionette. “Bisognerebbe insistere anche sull’aspetto sessista della questione”, diceva una collega mentre preparava coccarde di carta velina: “Si parla di maestro unico, ma in Italia oltre il 95 per cento delle insegnanti sono donne. La percentuale più alta d’Europa. E poi ci accusano di aver matrizzato l’insegnamento, di non aver educato i ragazzi al rispetto delle regole. Che manchiamo di autorevolezza”. “L’autorevolezza in classe è una continua conquista. E comunque la scuola è ben altra cosa rispetto agli slogan”. Daniele ogni tanto si affacciava tra le aule senza mai smettere di parlare e ragionare e catechizzare tutti – finanche semplici passanti - sul decreto e sugli scenari apocalittici che sarebbero seguiti alla sua approvazione. “Una catastrofe educativa”, spiegava con un dolcissimo accento romagnolo.
La notte bianca rappresentava il cuore degli eventi da organizzare. L’aria era carica di elettricità, tutti si muovevano freneticamente senza fermarsi mai. Alida aveva la sensazione di scoprire allora, solo allora, quanta eccitazione, quanta confusione, quanta passione possono esserci in una scuola. E quanta stanchezza: alle dieci crollò addormentata mentre leggeva le storie ai bambini già infilati nei sacchi a pelo. “Buongiorno…” La voce di Daniele, oramai era un incubo. Come la sua faccia. Non le piacevano quelli che piacevano a tutti, che si imponevano agli altri. Anche nei pensieri degli altri. “Ti ho portato il caffè”, disse più piano. Non era un sogno. Daniele era vicinissimo a lei, e gli altri intorno dormivano. “???”, chiese Alida, non trovando niente di meglio da dire. Poco dopo l’alba, erano seduti sul muretto del terrazzo della scuola. (Come faceva Daniele a sapere che non servivano le chiavi?) La città si illuminava piano piano. Lui le indicava romanticamente i nomi dei campanili, delle strade e delle piazze. Prosaicamente, poco dopo, le illustrò i diversi tragitti e la piazza dove sarebbero confluiti tutti i cortei della città. Doveva essere un grande giorno.
“Forse sei un politico mancato. Per te coinvolgere le persone è più importante della ragione per cui lo fai”, disse Alida. “Siamo tutti mancati rispetto a qualcosa. Hai ragione, la politica è stato un amore che ho lasciato scegliendo il mestiere, l’impegno quotidiano, la fatica, lo stare sul campo. Però puoi insegnare solo se hai voglia di apprendere. Se penso a quante cose ho imparato dai miei ragazzi, dalla scuola… Come non essergli grati, come non lottare per loro? Questa è una grande sfida”.
“Ma chi stai sfidando?” Quando indossava i panni dell’idealista e del puro, Daniele era insopportabile. “Perché non ci provi ad essere concreto? Il decreto passerà. Gli alunni si adatteranno e i genitori pure. Il problema è solo nostro”.
“E’ questa la visione egoistica che dobbiamo sconfiggere. Tutti i problemi della scuola sono problemi di tutti”. Ma da dove la prendeva tutta quella energia? Si stava già infervorando, alle sette di mattina. “E chi è capace di risolvere anche uno solo di questi problemi? Tu forse?”
Daniele la implorò: “Sentì, possiamo non parlare di scuola, io e te?”. “No, cavolo, adesso mi rispondi”. Così Daniele la baciò, a lungo, e Alida rispose con un sospiro. E le vennero in mente tutte le volte che aveva sospirato sbuffato respirato ed espirato facendo le file. Poi gli diede un bacio e un altro ancora. Questa volta era il display della vita che indicava il suo turno: stiamo servendo il numero… . “Otto e mezza, cazzo!”, esclamò Daniele sentendo l’orologio della piazza. Scesero le scale frettolosamente e si trovarono nel caos dei bambini e dei genitori, delle trombe e degli stendardi pronti per la manifestazione. Daniele prese il microfono e si mise alla testa del corteo, perdendola di vista per tutta la mattinata. Un fiume umano si riversava per le strade. Alida ascoltava brandelli di discorsi dei manifestanti. “Adesso basta con questi cortei”, diceva una collega ad un’altra “Se continua così gli stipendi saranno azzerati”. “Ottantacinque mila tagli in tre anni, non vi sembra un buon motivo per scioperare?” Intervenne Alida. Dopo quel bacio si sentiva trasformata in una pasionaria della pubblica istruzione. “Cento euro in meno al giorno per ogni giorno di sciopero non ti sembrano un buon motivo per restare in classe?” tagliò corto l’altra. Non lo sapeva che per ogni giorno di sciopero venivano sottratti cento euro dallo stipendio. Alida si sforzava di calcolare a quanto ammontava al momento la sua decurtazione. Proprio non ci riusciva, contando sulle dita capì che non avrebbe avuto soldi nemmeno per pagare l’albergo. Si ritrovò sola e inutile nel corteo. Daniele era poco più avanti, avrebbe potuto raggiungerlo in poco tempo. Avrebbe dovuto raggiungerlo. E prenderlo a sberle. Perché cavolo non le aveva detto che anche loro ci stavano rimettendo? Che quei tagli paventati erano già realtà, conti in rosso, difficoltà almeno per tre mesi a venire. “Stella stellina la notte si avvicina la scuola traballa l’istruzione va nella stalla” cantavano in coro i bambini. Stava per voltarsi indietro quando Wanda le affidò un pacco di volantini. “Li straccio e li butto tutti a terra, altro che parchi pubblici, altro che civiltà. Questo è l’ultimo”, giurava Alida mentre distribuiva “Manifestiamoci ancora”. Li aveva dati quasi tutti quando Daniele la raggiunse e senza diritto di replica la trascinò con sé, fendendo una fila piena di gente. Le diede il lembo di uno lenzuolo tagliato a metà, lui teneva stretto l’altro. “Non c’è più il futuro di una volta”, c’era scritto. E quello striscione li accompagnò e li tenne insieme per quella manifestazione e per tutte le altre a venire.

24 ottobre 2008

piccole scuole smettono di crescere

Diamoci un taglio. I modi sono quelli perentori a cui ci stiamo piano piano abituando. Decisionismo, punizioni esemplari per ragazzini maleducati, grembiulino e sette in condotta a pensieri opere e opinioni che divergono dalle desiderata governative. Della riforma “gelmonti” sappiamo tutto, o quasi. Un gruzzoletto di slogan ad effetto, i cui esiti saranno molto più disastrosi di quello che si riesce ad immaginare. Diamoci un taglio: agli insegnanti, alle scuole con meno di cinquanta alunni, alle università frequentate da un solo studente. Tutti soldi sprecati.
E di sprechi è piena la pubblica amministrazione: dagli ospedali ai tribunali, dagli enti alle scuole. Come non ammetterlo? Come non riconoscere quello che per tanto tempo tanti hanno, abbiamo detto.
Eppure. Eppure proprio la parola “tagli” richiama bellissime metafore contadine o botaniche.
Persino chi non ha frequentazione di arbusti sa che bisogna tagliare per far vivere le piante. Dalle rose in vaso, un taglio di traverso nella parte terminale del gambo, ai rami che vanno recisi almeno due volte l’anno per farli rinascere più forti e più folti. Però, come qualsiasi giardiniere sa, un taglio sbagliato può danneggiare irrimediabilmente l’albero, che da quel punto in poi non crescerà più.
Sui tagli ai maestri – bel maschilismo linguistico, i tagli sono rivolti alle maestre, il 94, 6 per cento del corpo insegnante – ci sono state blande e insignificanti rassicurazioni. Il corpo docente di fatto invecchierà e i giovani saranno lontani dalla scuola per molto molto tempo. Al più rimarranno sotto vetro nelle serre dei corsi di specializzazione e delle graduatorie permanenti che li prepareranno ad una professione da svolgere dieci o quindici anni dopo.
Meno argomentati i tagli alle scuole con pochi alunni. Le piccole scuole dei piccoli comuni che costano troppo. Questa sì che è una battaglia civile grandissima. Che deve essere portata avanti da sindaci, alunni, insegnanti, genitori.
Ci vorrebbero letture pubbliche per sensibilizzare tutti: magari i testi delle inchieste sul mezzogiorno promosse all’inizio dell’unità d’Italia, le pagine di Gaetano Salvemini, di Quintino Sella. Arrivavano nel sud e trovavano scuole ricavate nei sassi a Matera, alle insegnanti erano date case fatte di una sola stanza, con dotazione di pentoline e qualche pezzo di gesso. Insegnavano e abitavano nello stesso posto. In molti paesi, le lezioni per gli adulti, dovevano imparare a mettere la firma, per votare, per raggiungere Lamerica, si svolgevano nei treni abbandonati nelle stazioni. Da qui, da queste scuole con meno cinquanta alunni, l’Italia appena formata ha vinto la lotta all’analfabetismo che riguardava la quasi totalità della popolazione.
E tutte le disgrazie che hanno costellato la nostra storia, dove sono state colmate se non nelle piccole scuole? Le scuole distrutte dai terremoti hanno trovato ricovero negli appartamenti, molte case hanno ospitato sezioni staccate, supplendo lungaggini amministrative. In quelle scuole – talvolta affittate con molti e indiscutibili sprechi – si sono formati bambini e bambine, lì hanno imparato l’alfabeto e i numeri, l’obbedienza e la ribellione.
Per non parlare delle scuole di campagna, incastonate nel nulla di quelle che oggi si chiamano offerte formative, ma ricche di vita e di scambi, caratterizzate da una dimensione comunitaria che si stenta a riconoscere negli istituti con cento, cinquecento o cinquemila studenti.
Una scuola che si chiude è come una foresta abbattuta. Non c’è più piacere dell’insegnamento e dell’apprendimento, non ci sono più difficoltà da superare, non ci sono più poesie da imparare. Non c’è più sapere, vale a dire: non c’è più aria da respirare.

21 ottobre 2008

la voce del padrone

Un’ora sola, da sola in classe. I miei alunni hanno fatto festa in massa e io mi chiudo nell’aula a sistemare i registri. E’ strano il silenzio, a scuola. Infatti, poco dopo incomincio a sentire le lezioni dei miei vicini. Un collega e una collega, classe destra e classe sinistra. Sento gli appelli in stereofonia. E’ la prima ora è già urlano. Una gli sta facendo una ramanzina, “perché la scuola….”, devono aver fatto qualcosa di davvero grave. Ma cosa? cerco di ascultare al di la del muro ma non ci riesco. Il professore ha incominciato la spiegazione ed è dotato di una bella voce stentorea, le sue parole diventano degli acuti di tanto in tanto, come se nel tono con cui pronuncia le parole ci fosse un rimprovero. Dopo un po’ anche l’altra ha smesso di rimproverare e spiega, ma continua a essere arrabbiata. “Allora?” urla. “Allora?” Le voci degli alunni non si sentono, la sua voce si fa più pesante quando qualcuno si muove.
Bel tirocinio questo. Sentire di nascosto la vita scolastica al di là del muro. L’impressione è quella di una guerra: venti contro uno. “Allora?” urla di nuovo. Mi è sembrato di sentire qualche parola sull’uguaglianza. “Allora!”. Uno contro venti. La richiesta di attenzione contro l'eseibizione della distrazione.
La voce, di qui, è quasi più importante dei contenuti. E infatti lei riprende a strillare loro a sussurrare. Cosa resterà loro del concetto di uguaglianza appreso in questa lezione. Un bel mal di testa, di sicuro.
Sulla questione dell’alzare la voce mi sono già confrontata con altre colleghe: lo sanno tutti che gli insegnanti quando si incontrano finiscono sempre per parlare di scuola.
Da loro due diverse, opposte strategie. Una aggiunge, l’altra toglie.
La collega numero uno è una maestra old style, leggenda vivente di severità, un faro pedagogico a cui guardo da lontano, molto lontano, con infinita voglia di imparare.
Una sua allieva di prima elementare all’inizio dell’anno scolastico proprio non ne voleva sapere di restare in classe: AAAAAAAHHHH, ha urlato il primo giorno. AAAAAAAHHHH, ha urlato il secondo giorno. Terzo giorno mo ti sistemo io, dice la maestra, non lo sai che con me nessuno osa fiatare? (Caspita se lo sa, per questo grida).
AAAAAAAHHHH, la bimba entra in classe.
AAAAAAAAAAHHHH, risponde la maestra mettendola sulla cattedra.
AAAAAAHHHH, urla la piccina.
AAAAAAAAAHHHHHH, replica la maestra.
AAAAHHH, urla la uaglionecella.
AAAAAAAAAAAAHHHHHHH, incalza la maestra.
Aaaaahhhh, continua piano la creatura. Sempre più piano sempre più piano aaahh.
Alla fine - mi riferisce orgogliosa la paladina della pedagogia del terrore - la bambina non ha urlato più”. Sì, ma riusciva a parlava almeno avrei voluto chiedere. Ma a quel punto non avevo più il coraggio di proferire parola.
Collega numero due. Insegna all’università, spiega mediamente a cento alunni per lezione. Una lotta impari. In più usa spesso la lavagna, quindi è costretta a girarsi spesso per le tracce degli esercizi e non ha modo di controllare visivamente i ragazzi . Appena alzano la voce lei l’abbassa. Loro bisbigliano, lei sussurra, loro si soffiano le parole nell’orecchio, lei usa il labiale. A questo punto, forse prima di questo punto, i ragazzi tacciono e lei ricomincia la lezione con una voce da soprano. Sino al successivo mormorio.
Noi prof il silenzio lo vogliamo e lo pretendiamo: con le buone o con le cattive. Nella buona e nella cattiva sorte. Siamo noi che dobbiamo parlare. E talvolta facciamo delle bellissime lezioni sull’importanza dell’ascolto. Strategia numero uno o numero due?
Esco dalla classe prima che suoni la campanella, non sopporterei il vocio del cambio d’ora. Passo davanti ad un aula che ha le finestre aperte. La professoressa sta leggendo un libro con un tono assolutamente normale, tutti i ragazzi la stanno seguendo. Sembra così facile, naturale. Non ci sono tattiche, strategie. Ci sono parole. Che risuonano di qualcosa di speciale: interesse, rispetto, stima. Questo si sente, e fa la differenza.



(su saviano ci ritorno presto. nel frattempo ho scritto qualcosa su www.casertamusica.com)

10 ottobre 2008

a scuola con gomorra


Mi hanno chiesto di vedere Gomorra. Un po’ me l’aspettavo e in fondo lo volevo anch’io. Ma ho preferito fossero loro a chiedermelo. Si sono organizzati da soli: hanno portato il dvd, la lettore portatile, hanno fatto la richiesta dell’aula video. Quando vogliono, sanno fare tutto.
I primi minuti del film li trascorro guardando le mie alunne che cantano Raffaello tenendosi la mano. Quando gli occhi si incrociano abbassano la voce e un po’ sorridono, ma non smettono di cantare. Come se quella canzone fosse più importante di tutto il resto.
Poi il primo colpo di pistola, il primo dei tanti del film. E tutto cambia. Siamo seduti di fronte alla tv. Nel corso delle due ore le posizioni dei corpi cambiano. Qualcuno si schiaccia contro il muro, le ragazze si abbracciano ai fidanzati, altre poggiano i gomiti sulle ginocchia. C’è anche mio figlio di dieci anni, mi ha chiesto lui di vedere Gomorra. Quella che doveva essere una mattina di festa a scuola si trasforma in un marasma di sentimenti contrastanti, che vanno dalla noia alla paura. Ad un certo punto lo vedo in braccio al più gigantone dei miei alunni.
La distrazione abituale che accompagna la visione di un film a scuola questa volta è sostituita da bisbigli sommessi, spiegazioni, richiesta di spiegazioni, interpretazioni. Come se Gomorra fosse soprattutto una calamita di esperienze di vita vissuta, sguardi diretti su un mondo liminare, in cui vi sono zone note e meno note. In ogni caso, nessuno di noi mette in crisi la veridicità del film. Ci affidiamo totalmente allo sguardo del regista guidato dalla penna dello scrittore: “ Così è”, “chillo è o vero”. E vere sono pure le strade, le case, gli angoli di spiaggia che alcuni conoscono e altri no. Ne parliamo anche dopo, quando il film è finito e rientriamo in classe. Ci sono le finestre aperte, come sempre. Tutte le nostre lezioni sono mescolate alla vita del condominio di Parco Angelo. Da qualche giorno insieme alle esercitazioni di un flautista si sentono i rumori degli elicotteri. Il film ha lasciato una grande angoscia in tutti noi. Anche a chi l’aveva già visto. Ma oramai non facciamo che vederci in video, in questi giorni. Non noi, ma le nostre strade, le nostre piazze. E’ un anno quasi, che ci raccontano per segmenti. Prima la spazzatura, poi la camorra, adesso il razzismo. Come se quei segmenti fossero disgiunti dal resto. O peggio, come se quei segmenti disegnassero il perimetro di una realtà al di fuori della quale non ci fosse nient’altro. Questa è Caserta e la sua provincia. La terra di nessuno che consegna il propri figli alla dolore e alla rassegnazione. Una terra che esisteva già prima che la mostrasse il film. Un film candidato all’Oscar. E questa terra a cosa è candidata?
Sono in molti a rassicurarci questi giorni: non c’è solo la camorra, c’è tanta gente onesta, per bene. Come se non fosse anche questa la nostra esperienza. Ma adesso sono le emozioni a prevalere. Quell’angoscia che ho sentito rientrando in classe non accenna a passare. Anche se siamo nell’atrio pieno di sole, a pochi minuti dalla fine della giornata.

(questa è una foto speciale. è affissa fuori l'istituto mattei di caserta. per vederla basta allungarsi in via botticelli. merita un racconto: arriverà presto)

03 ottobre 2008

no gelmini day: ovvero il maestro unico e l'inceneritore


Interessante, no?, questo continua riscrittura del nostro calendario. Un po’ come accadde durante la rivoluzione francese, quando per i mesi furono scelti nomi di fiori, di piante, di elementi della natura. Citando a memoria, con qualche vuoto: brumaio, vendemmiao, nevoso, piovoso, fiorile, pratile, termidoro, fruttidoro .
E' già qualche anno che i giorni, le settimane e i mesi vengono vampirizzati da enti, istituzioni, aziende pubblicitarie che individuano un evento – la nascita, la morte, un incendio, una giornata di guerra – e lo attaccano con colla si spera indelebile ad una data. Come è accaduto con la giornata della memoria, il 27 gennaio, giorno dell’apertura dei cancelli di Aushwitz, è stata istituita con un iter legislativo, di cui si raccomanda fortemente la celebrazione nelle scuole.
Feste religiose e laiche sono oramai pari, le prime continuano ad essere segnate in rosso sul calendario, le seconde sono appuntamenti imperdibili tra ipermercati e divertifici di varia natura: Ognisanti segue la festa di Halloween (ma quando ero piccola io, il 31 ottobre era la giornata del risparmio e la maestra ci faceva disegnare il salvadanaio e fare una marea di pensierini) , la festa della donna precede di poco la settimana santa, Ferragosto e l’assunzione della Madonna coincidono. Tutti insieme appassionatamente nell’agenda del nostro tempo libero, e si spera, qualche volta anche del nostro tempo interiore.
Poi è stata la volta delle giornate laiche: la giornata della poesia (che coincide con quello della legalità, 21 marzo), quella delle lingue straniere che cadono in giorni diversi dalla settimana della cultura. Un fiorire di manifestazioni, di incontri, di appuntamenti sino all’anno successivo.
Cosa accade nel frattempo alle lingue, alla cultura, alla legalità?
Si festeggia il mese della prevenzione dentale, quello della vista, la giornata dei reni e quella del cuore. Senza contare le domeniche mattine trascorse a comprare azalee per la sclerosi multiple, arance per il cancro e altre varietà vegetali per finanziare ricerche su ogni tipo di malattie. Qualcuno dovrà pensarci prima o poi a i forzati della beneficenza, quelli che non riescono a dire no a nessun gazebo che incontrano per strada, che tornano a casa con il mal di schiena per via di quelle buste che quando si acquistano fanno sentire così bene.
Infine, gli ultimi in ordine di tempo, i giorni dedicati alle manifestazioni e alle rivendicazioni. Giorni spot, dai messaggi facili e immediati. Altro che happy days! In funzione antifrastica si direbbe in letteratura, sono stati organizzati e celebrati il family day e il vaffa day. Niente di felice, gente davvero arrabbiata che diceva la propria facendo la voce grossa, in corteo. Questa settimana, la giornata della pace: ufficialmente 2 ottobre l’anniversario della morte di Gandhi – credo di ricordare che la stessa data era stata proposta come festa dei nonni dal precedente governo Berlusconi – ma gli italiani i pacifisti festeggiano il 4 ottobre, dedicato a San Francesco e al suo dialogo ecumenico. E quasi nelle stesse ore: il jatavinne day, protesta, ovviamente partenopea contro le discariche e gli inceneritori e il no gelmini day, evento tutto romano contro, altrettanto ovviamente, il maestro unico. (Quasi ci si confonde, il ricordo va anche al gelmini day proposto da Gasparri agosto 2007 - Come passa il tempo! - per difendere don pierino dagli strali della giustizia).
Sarà per via di questo calendario tutto segnato e pasticciato che mi ritrovo in cucina, ho idea che il maestro unico finirà nell’inceneritore e gli altri insegnanti troveranno riparo tra le ecoballe nella discarica di Giuliano (ma in tre anni, ha assicurato ieri Berlusconi, con calma).
E forse così, a seguito di qualche catastrofe, una giornata per pensare davvero alla scuola, all’istruzione, all’educazione, magari ci esce pure.


My Photo
La scuola è un racconto. Scritto sui banchi continua sul web ogni settimana. Con storie, immagini e dialoghi.

Alice.it - Gli appuntamenti con libri
My Photo
Marilena Lucente: insegnante

Per saperne di piu'
Ancora del Mediterraneo
Caserta c'è
Caserta Musica
Gero Mannella
Luisella Bolla
Valerio Lucarelli

Powered by Blogger