Scritto sui banchi

26 febbraio 2007

la scolastica e gli esercizi di stile

L’altro giorno sono stata ad una conferenza qui in città. L’argomento era abbastanza intenso e anche i nomi dei partecipanti erano interessanti. Ci vado con il mio kit immancabile di notes e penna. Scrivo tutto. Sono quasi una stenografa, oramai. Prendo appunti soprattutto per non distrarmi. La saletta incomincia a riempirsi, siamo le solite signore attente e compunte, qualche uomo, pochissimi ragazzi. Sembrano capitati per sbaglio. Finalmente si incomincia. Introduce una donna, con un discorso serio ed elegante sul perché dell’incontro. Poi presenta gli ospiti. Ovviamente elogiandoli. Il tale professore che è bravissimo e spiegherà la questione in maniera non scolastica ma avvincente. Non scolastica? La penna ha scritto meccanicamente. Ma non vuole più saperne di andare avanti. Bella gaffè! penso, visto che qui, come in quasi tutte le conferenze, le relazioni, gli incontri culturali, la maggior parte del pubblico è composta da insegnanti. Quindi di gente che normalmente fa le cose in maniera scolastica, o comunque ha a che fare con la “scolastica”. Superata l’irritazione ricomincio a prendere appunti. Adesso a parlare è il professore avvincente e non scolastico (anche se, sul manifesto, sotto il suo nome compare la dizione di docente universitario). Sono pronta ad apprendere da lui. E’ vero: illustrata bene l’argomento entrando subito nel cuore delle questioni. Parla per una quarantina di minuti. Io scrivo cinque, sei pagine. Niente di scolastico ma neanche niente effetti tridimensionali, coinvolgimenti olfattivi, cinesici o quant’altro. Un ottimo conferenziere. Cosa intendeva dire la signora parlando di maniera non scolastica? Noiosa? Pallosa? Scolastico è stato usato, al femminile, come aggettivo qualificativo dispregiativo. Ok.
Stamattina un collega mi ha fermato. Non ha condiviso un prodotto che abbiamo realizzato come scuola (un tg dei ragazzi in onda su teleluna, ci ritorno un’altra volta). C’è un ragazzo che ad un certo punto dice di essere bullo. La sua faccia in video dura trenta secondi. Il telegiornale 13 minuti. “Quale messaggio abbiamo dato?” mi chiede irritato (anche lui, come me l’altro giorno!). “Ho spento il televisore per il fastidio!” (io ho continuato a seguire la conferenza). “Noi siamo una scuola, dobbiamo dare un messaggio!!!” (scolastico? mi domando in silenzio). “Non va bene. Anche quel servizio sull’amore” (anche quello? così frizzante!), “noi dobbiamo parlare di cultura, dobbiamo parlare di ragazzi che vogliono migliorarsi, elevarsi”. E si eleva anche il suo tono. Ci sono tanti modi per parlarne, credo. “Ricorda che questo è comunque un progetto scolastico!” Scolastico, dunque aggettivo qualificativo ma qui utilizzato in una accezione positiva. Scolastico: ovvero edificante, elevante, per usare il suo linguaggio.
Mi sento in una terra di nessuno. Vista da fuori, la scuola (e la scolastica) sono terribili. O solo terribilmente noiose. Visto da dentro, il mondo di fuori è orribile, diseducativo, privo di messaggi. E la scuola (e la scolastica) devono essere un baluardo alle insidie del degrado e del nulla verso cui precipitiamo.
La prossima volta che entro in classe devo fare come negli Esercizi di stile di Quenau. Una stessa lezione, lo stesso progetto declinato in differenti versioni: con toni glamour, con piglio moralistico, in versione attraente, bacchettona, irritante, consenziente, scolastica, non scolastica, di nuovo scolastica…

21 febbraio 2007

i racconti dell'altrove. il libro di paolo mastroianni


Come nel film Sei gradi di separazione. Tra noi e il resto del mondo, tutte le persone del mondo, passano al massimo sei persone. Possiamo, potenzialmente, essere vicini a tutti. Conoscerli, facci raccontare le loro storie, incastrarle con le nostre. Invece, la maggior parte delle volte, le esistenze degli altri finiscono per sfiorare la nostra vita. Restiamo in compagnia di una scia di volti, di gesti, di parole. Più spesso restiamo soli. Finiamo per trovarci “altrove”. In transito nella esistenza.
Altrove è la raccolta di Paolo Mastroianni, Effigie edizioni, presentato l’altra sera alla libreria Mondadori di Caserta. Insieme a me, l’autore e Nello Zerillo, coordinatore di Nero e Non Solo.
Sei racconti di vita che confluiscono, impercettibilmente, l’una dentro l’altra. Per effetto di uno sguardo, di un sogno, di un ricordo. “Immagino due persone sedute casualmente vicine in un pulman”, spiega Paolo. “Questa semplice vicinanza contiene in sé racconti brevi, possibili intrecci, a partire dalla complessità custodita nel corpo dei due passeggeri. Gli incontri casuali sono spesso concentrati di emotività”.
Nel libro, le storie si svolgono in soli 15 giorni, gli ultimi giorni di marzo del 1993, quando il fenomeno dell’immigrazione deflagrava in tutta la sua caotica irruenza. A questa compattezza del tempo, corrisponde uno spazio ricco e frammentato: dalla periferia sfatta di Villa Literno alla vivace metropolitana londinese, passando per il freddo di Budapest e l’attesa sui pulman in partenza da Varsavia, giù, tra cronaca e memoria, sino al ricordo del caldo accogliente dei villaggi africani. Pagina dopo pagina si attraversano le terre degli emigranti, quelle degli esodi e degli approdi. Alle periferie delle città e delle certezze.
Storie di vita colte nei momenti in cui le esistenze cambiano, si perde qualcosa – un lavoro, un figlio, lo status sociale - e le sicurezze si incrinano, si attraversa l’altrove e si finisce per sostare nei territori insidiosi e necessari della precarietà. Con l’emigrazione, la geografia diventa scienza dell’anima. C’è sempre uno scarto tra il luogo di nascita e il luogo di residenza, tra lo spazio che abbiamo dentro e quello che materialmente attraversiamo. Tra la vita che avremmo voluto avere e quella che ci è dato di essere. Siamo sempre in viaggio, tra questi due estremi.
Lo sono gli uomini e le donne protagonisti dei racconti - prostitute, magnaccia, piccoli truffatori, bulli di periferia e manager affranti - di cui ci vengono fornite, sin dall’inizio le generalità biografiche, come se lo status anagrafico potesse arginare il disordine che agita e abita ogni vita..
Lo sono persino le città, che vengono descritte con scorci paesaggistici e precisione topomastica, per condurre e orientare lo sguardo del lettore, obbligato a vedere oltre la patina delle immagini consumate dell’immigrazione. “Si può fare il giro del mondo anche solo girando nella nostra provincia”, afferma Nello Zerella. “Al contrario, tendiamo a chiuderci, a proteggerci nelle nostre case, a non incontrare mai gli altri”. Confinandoli in un altrove ancora più doloroso.
Ma l’altrove, sembra suggerire il libro, è anche una speranza. Il bisogno tutto interiore di immaginarsi una via d’uscita, il luogo in cui desideriamo essere e che alla fine finisce per farci compagnia. Certe volte si chiama speranza. Altre volte, elementare necessità di vivere.

15 febbraio 2007

buon san valentino, anche a loro


Ha un gigno crudele Vegeta, sul rettangolo di plastica trasparente. Lamicards, credo si chiamino le ultime figurine per cui i ragazzini fanno follia, gli edicolanti gongolano e le mamme e le maestre ci perdono la testa. Mio figlio vuole il guerriero giapponese sulla maglietta e siccome non ce ne sono ancora in giro, cedo al capriccio portandolo in uno di quei negozi che stampano tutto su tutti i materiali. Dalle tazzine al posacenere, dal bavaglino alla t shirt, appunto. Ho solo scelto il giorno sbagliato. Perché il negozio, un modesto locale ricolmo di cuori, maglie, cianfrusaglie di ogni tipo è pieno di gente. Ragazzine, per lo più. In fila, in allegro chiacchierio, con la foto in mano o un foglio di carta su cui sono appuntate delle parole. Non posso aspettare inutilmente e così scavalco con lo sguardo il gruppetto di adolescenti assiepate attorno al banco e chiedo al negoziante se si può riprodurre la figurina su un supporto di stoffa. “Signora, ma non potete passare avanti, se no queste m’accirono.” Infatti no, non voglio sorpassare nessuno. Ho solo bisogno di sapere se c’è un procedimento tecnico che consente di riprodurre questo disegno così piccolo su una superficie diversa. “Si può fare tutto, ma non oggi”. Mio figlio mette su un broncio a cui si accompagna un mio leggero disappunto. Nel frattempo, il titolare infila una foto nello scanner, la ragazzina in costume da bagno e in sorriso extra large, riappare sul monitor, con la scritta ti amo, in corsivo rosso. Dopo meno di quattro minuti è trasformata in un puzzle e incartata in un delizioso pacchetto di plastica. Avanti un’altra. Lei detta: “inizio 15-5-06 , la fine non ci sarà mai”. “Dove lo vuoi?”, chiede sempre il titolare mentre inserisce i dati nella macchina da cucire. “Su quel cuore là, quello più grande”. Ho dimenticato la ragione per cui mi trovo qui. E mi perdo nel delirio di frasi d’amore che a confronto quelle dei baci perugina sembrano blande litanie. “Tesò, si a vita mia”, detta un ragazzone con una tigre disegnata al centro del di dietro dei jeans. Mentre si sporge per raggiungere un cuscino, il proprietario del negozio mi passa davanti. “Signora, non è che vi voglio cacciare. Ma io qua pago cinquemila euro al mese. Lavoro bene si e no due volte l’anno. A Natale e a San Valentino. Il creaturo portatelo dopo il 14, mi metto a disposizione sua”. “Sentito a mamma?” Dico a mio figlio cercando di stemperare la delusione. “Torniamo dopo la festa. Adesso il signore deve lavorare”.
Ho sempre diffidato delle cerimonie in scatola, dei calendari artificiali stilati dalle vetrine dei centri commerciali, dei pensieri affettuosi che cascano giù dalle slot machine del marketing. Invece mi fermo a guardare quelli che hanno lavoro a san valentino (e poi alla festa della donna, del papà, della mamma… dai, ha esagerato con il fatto che guadagna bene due volte l’anno). E più dei cuori voluttuosi nelle pasticcerie sono stata attratta dai giganteschi peluche penzolanti sotto i gazebo lungo la nazionale appia, le rose di seta imbustate malamente e vendute a cinque euro sulla sannitica, le migliaia di gadget di ogni tipo offerti agli angoli delle piazze. Bancarielli che spuntati ovunque, dalla mattina alla sera. E tra cuore e amore, anche questa festa é passata. A lavorare.

08 febbraio 2007

il secchio e la finestra


Prima i grappoli d’uva, dopo le castagne che sbucano dal riccio, dopo ancora il cielo pieno di stelle di Natale. Adesso le mascherine. Le finestre delle scuole sono così. Calendari trasparenti che segnano il passare del tempo con carta crespata, veline, batuffoli di ovatta. Tra tutte le finestre che occhieggiano al nostro passaggio, quelle dei panni stesi e dei fiori di ciclamini rossi, delle tendine di pizzo e degli adesivi attaccati sui vetri, le finestre delle scuole guardano diritto negli occhi i bambini. Spesso sono le maestre a prepararle. Interi pomeriggi trascorsi nel magazzino della scuola, alla ricerca del cartoncino ondulato, dei cordoncini e della rafia. Tagliano, incollano, mettono chiodi e fili invisibili di nylon. A volte i bambini entrano e nemmeno se ne accorgono. Poi per caso alzano lo sguardo. Come hanno fatto a non vederle? Allora le commentano tra loro, si contagiano di meraviglia, hanno voglia di andare vicino, prendere qualcosa. Ma tanto lo sanno “che non si fa”.
Il metronomo dei bambini, le finestre dell'aula. Il tempo che passa, che si trasforma, che si inventa, che si ricorda, che si aspetta. Finestre grandi occhi: per guardare fuori, per guardare dentro.
“Conoscete la storia di Arlecchino?”. I bambini sono seduti in cerchio, sulle sedioline. “Nooo”, gridano in coro. “Ci racconti quella di Dragon Ball?". "Ascoltate quella di Arlecchino che è più bella”.
E così, sulla strada del ritorno raccontano di quella mamma povera che aveva passato tutta la notte a cucire il vestito del suo bambino, cucendo insieme i pezzi di stoffa colorati che le erano avanzati dai vestiti che aveva preparato per altri. Non la ricordavo più questa storia. Però l’hanno raccontata anche a me da bambina.
Il metronomo degli adulti, le storie. Compagne di viaggio che si lasciano per strada e all’improvviso si ritrovano. Favole mai dimenticate. Confusione di trame e oblio dei finali. Fiabe che dicono quanto siamo cresciuti, che hanno lasciato il posto ad altre storie che adesso ci piace ascoltare.
“E’ venuta la signora con la scopa verde in mano. E poi il secchio al centro si è riempito e noi ci siamo piegati per vedere dentro che c’era. E allora la maestra ci ha detto di uscire e di andare in un’altra aula”. Seguivo il racconto a tratti. Le storie misurano anche la distrazione e la capacità di ascolto. “E come si chiama questa storia della scopa verde e del secchio pieno di acqua?”. “Mamma, non hai capito! non è una toria. È vero. Pioveva nella notra classe!” “Pioveva in classe?”. “Siiiii… e cadeva il gesso sulla testa”.
Ecco, a scuola accade proprio così. L’attenzione dei particolari, i disegni alle finestre, le sedie in cerchio per raccontare una favola e i muri che non tengono, il soffitto che fa acqua. Non sempre. Quest’anno poco perché ha piovuto poco. Per riparare bisogna chiamare il comune, aspettare che mandino qualcuno, valutare i danni e poi riparare. Nel frattempo le mascherine si scollano, il carnevale arriva e va via. Qualche volta, appoggiati ad una finestra, capita di pensare ad una scuola migliore. Per i nostri figli. Per noi. Per le altre finestre della città.

06 febbraio 2007

Buio e rivoluzione...


Trenta anni dopo. Come miriadi di foto istantanee. Collezionate da ciascuno e poi ricomposte in un collage collettivo. Il trentennale del 1977 è un insieme di nomi, di targhe di piazze, di date, di volti, di eventi. Tasselli di una storia ricostruita, oggi, quotidianamente dai protagonisti del tempo. Da quelli che c’erano e adesso raccontano, testimoniano, affermano, rinnegano, ribadiscono le urgenze di un’epoca difficile da definire. Colpisce dunque per la singolarità della voce, il libro di Valerio Lucarelli, Buio Rivoluzione, (edizioni PeQuod) che parte dall’humus ideologico e politico di quegli anni per scivolare verso un futuro prosaicamente vicino eppure denso di inquietudini.
Un libro ondivago: tra finzione e realtà, passato e futuro, psicologia e ideologia. Estate 2008. La figlia del primo ministro inglese è rapita da un gruppo di terroristi. L’ispettore Maurizio Lupo, nel cuore di una crisi esistenziale e professionale, assiste all’agguato e poco dopo si affianca ai servizi segreti inglesi. Ma l’entrata in scena di una donna spigolosa e misteriosa complicherà le indagini. La trama procede spedita tra equivoci e sorprese, agnizioni e colpi di scena. Entrano in scena personaggi diversi, ciascuno con il proprio irriducibile punto di vista: sguardi sul mondo lucidi, distorti, distratti, mai pacificati. Il senso del libro però si svolge altrove, al riparo dalla tenuta narrativa. Sono i dialoghi dei personaggi che tentano di ricostruire il senso politico della nostra storia, partendo dal caso Moro, il vulnus, la ferita della nostra vita democratica, sino ai convulsi giorni di Genova, passando per gli omicidi di Biagi e D’Antona.
Il terrorismo, le Brigate Rosse, gli anni di Piombo. E’ come se miriadi di schegge di quella Storia si fossero conficcate nella storia di tutti. Insieme ai tantissimi interrogativi che ci portiamo dietro, e che non riusciamo a sciogliere. Accade però che appena possiamo ne parliamo. E così, venerdì scorso, alla Libreria Mondadori di Caserta, si sono intrecciate discussioni e riflessioni dei lettori e dell’Autore. A presentarlo, insieme a me, gli scrittori Sergio Lambiase e Piero Sorrentino.
Intanto: si scrive molto o si è scritto poco del terrorismo? Uno strappo così violento della nostra storia, della nostra identità, cosa ha prodotto sul piano narrativo? “Si è scritto poco prima, ma via via sono aumentate le testimonianze - dei protagonisti, dei pentiti - e le ricostruzioni storiche. Dai libri alle pistole: la storia di quegli anni sembra ricomporsi. A meno che non facciamo dietrologia e allora sì che non ne usciamo più…”, dice Sergio Lambiase, autore di Terroristi brava gente, un problematico e surreale romanzo dedicato ai gruppi rivoluzionari napoletani.
“Si scrive, si racconta, quando ci sono ferite da rimarginare, ha aggiunto Piero Sorrentino. Nella prefazione ai Sentieri dei nidi di ragno Calvino usa un’espressione terribile per uno scrittore: le storie si fanno scrivere ‘autonomamente’. L’urgenza della scrittura non riguarda il singolo autore ma il periodo storico che vive ed esprime”.
Non è un libro inchiesta Buio Rivoluzione, non è una testimonianza di prima mano. Ma è un romanzo che custodisce un impianto documentario abbastanza denso. Per questo, pur protetto dalla fiction, rivendica la lucidità e l’attendibilità della scrittura. “Quella del terrorismo è una storia infinita, ha una durata temporale lunghissima, con frenate e accelerate. E non è affatto detto che sia finita”, chiude Valerio Lucarelli. Rilanciando ancora dal romanzo alla vita. Entrambi un po’ buio, un po’ rivoluzione.

01 febbraio 2007

il giorno della memoria


Settimana della memoria. Giorni dedicati al dovere di ricordare gli orrori della Storia. Perché il male si trasformi in monito. Perché il dolore, se solo fosse possibile, muova alla speranza. Attraverso le testimonianze, le storie che diventano importanti perché c’è qualcuno che le racconta. E qualcuno che ascolta. Magari a scuola. Che forse è il luogo giusto per diventare consapevoli di quello che accade. Di quello che è accaduto.
Lunedì gli studenti della mia scuola hanno incontrato Marta Herling, figlia di Gustav e Lidia Croce.
Autore de Un mondo a parte (1952), Herling ha raccontato la vita nei gulag sovietici, “luogo di prigione e martirio” dove ha trascorso parte della sua giovinezza. Sino alla liberazione nel 1942.
Mio padre avrebbe voluto leggessimo alcune pagine del suo libro, dice Marta indicando i capitoli da proporre agli studenti. Ma loro vogliono sapere prima di lei, del suo rapporto col padre e ancora di più con quel libro: “Ho letto quel libro a 16 anni e non ne ho mai parlato con mio padre. L’ho letto dimenticando che stava parlando di lui. E ancora oggi, mentre sceglievo i brani da leggere qui, mi è difficile accettare che lui abbia vissuto questa tragedia”.
Eppure tocca a lei, “figlia dell’esilio”, il compito di raccontare. Di continuare il faticoso lavoro della testimonianza. Nasce così la cura de “Il pellegrino della libertà” (Ancora del Mediterraneo, 2006), una raccolta di racconti e saggi inediti che ripercorrono la vicenda biografica di Herling: dalla fuga dalla Polonia al mondo a parte del gulag, dalla guerra all’approdo in Italia, a Sorrento. Dal buio dell’esperienza sovietica all’immersione nella luce del Mediterraneo, dalla prigionia alla libertà, dalla morte alla vita. Il volume si chiude con le riflessioni di Herling sull’inscindibile legame tra esilio e scrittura, tra la propria lingua di origine e quella del paese in cui ha scelto di vivere, o come amava ripetere lui, dice Marta, “il paese in cui aveva scelto di morire”, l’Italia.
Ma è la vita nel gulag che rappresenta il buco nero in cui precipita l’attenzione e lo sgomento degli studenti. “Lavoravamo dodici ore al giorno – si legge nel Pellegrino – nelle più severe condizioni climatiche, dato che l’inverno artico riserva spesso temperature di quaranta gradi sotto zero. (…) Gli abiti che indossavamo erano più fagotti di stracci che veri ep propri vestiti e i casi di congelamento erano all’ordine del giorno. La razione giornaliera di cibo consisteva di una zuppa priva di qualsiasi grasso e di carne – semplice acqua calda con qualche misero ingrediente – e pane nero….”. Come si poteva sopravvivere? “Mio padre, risponde Marta (e sono tante le domande che le sono state rivolte), scrive che uno dei momenti più belli della giornata era quando rientravano dal campo e vedeva le luci, la campagna, quello che continuava ad essere fuori al campo”, e quasi accompagna con la mano il disegno di quel profilo di vita. “Sicuramente, mio padre ha scritto il suo libro prima di tutto nella sua mente. Scriveva perché aveva bisogno di capire che cosa accadeva. Per non soccombere. Per testimoniare le vite degli altri. Erano i compagni di campo che spesso gli chiedevano di testimoniare: tu sei giovane, sei forte, racconta di noi. E lui non esitava ad ammetterlo: come scrittore sono nato nel gulag”. La scrittura è anche questo: forza di ricordare, fatica di raccontare. E, simmetricamente, la storia è anche questo: conoscenza e prima ancora coscienza.


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La scuola è un racconto. Scritto sui banchi continua sul web ogni settimana. Con storie, immagini e dialoghi.

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