Scritto sui banchi

31 marzo 2007

per chi suona il cellulare

E’ una specie di mania, una febbre leggera che prende tutti i lettori di giornali, tutti quelli che i giornali li comprano e poi di fatto, materialmente non riescono a leggere: ritagliano, strappano le pagine, accumulano, conservano, schedano, ripongono. Nella cartellina delle buone intenzioni. Lo leggerò dopo. La casa si riempie di ritagli, di pagine piegate, stese ai davanzali del tempo libero. Quello sognato piuttosto che vissuto. Perché gran parte di questi ritagli, questo mondo ridotto in rettangoli cartacei, resta poi inesplorato. Oppure si legge e si vuole conservare. Per ri-leggere. E allora l’accumulo raggiunge livelli esponenziali. Il materiale aumenta e ad un certo punto raggiunge la soglia di tolleranza. Raggiunta la quale si butta, si ripone in angoli più segreti, si perde nei meandri del nostro sapere. “Il mondo è cartaceo, e un gran fuoco lo sfiora”. Ripeto a me stessa la frase di Manganelli. Non ottengo nessun miglioramento, da me stessa.

Tra i miei ritagli, tanti, troppi, ce ne sono alcuni davvero perniciosi. Perché sono così piccoli che sfuggono alle buste di plastica, agli elastici, alle cartelline. E li ritrovo dovunque per casa, a mo’ di coriandoli. Sono i pezzi di Michele Serra, i quadratini “L’amaca” che conservo da Repubblica. Quando compro il giornale, dopo aver letto i titoli, il primo pezzo che leggo è quello di Serra. Scrive bene e soprattutto ha sempre un punto di vista peculiare sugli argomenti. Mi piace perché mi spiazza. Sempre. (O quasi).

“Il divieto di tenere i telefonini accesi a scuola deve farci davvero riflettere. Equivale, infatti, al divieto di suonare la tromba durante le lezioni, o al divieto di praticare buchi nella cattedra con un trapano. Pensandoci bene, pensandoci meglio, ci mette davanti agli occhi una caduta quasi surreale del livello di educazione di questo Paese. E ci fa intendere qunato incondizionata sia stata la resa degli adulti alla propria pigrizia – non di altro si tratta – di fronte alla responsabilità che portiamo nei confronti dei ragazzi”. Ho ricopiato per intero le prime righe di un’amaca scritta all’indomani della circolare di Fioroni dedicata all’uso, al cattivo uso, dei cellulari a scuola.

Rewind. Fioroni la circolare non voleva farla, l’aveva già affermato all’inizio dell’anno, adducendo motivazioni analoghe a quelle di Serra. Spegnere il telefonino è una questione di educazione. Affermarlo in riferimento al contesto scolastico (ed educativo) è quasi pleonastico. Ma: troppi eventi, troppa cronaca scolastica alla ribalta, ha costretto il ministro a dare una risposta. Ragazzi, beccatevi questa circolare e prof fatevi rispettare. Provvedete voi a urlare.

Play: Quando la mia collega ha rimproverato un ragazzo che messaggiava in classe, lui ha risposto: “aro’ sta ‘a circolare?” Voleva vederla, leggerla, appunto. Non c’è, non è ancora arrivata a scuola. Solo ai giornali, per adesso.

Serra ha ragione. Una circolare per dire l’ovvio è una pessima dimostrazione dello stato, anch’esso pessimo, della nostra scuola. Ma di idiosincrasie tra il dire e il fare, è piena la nostra società: il pneumologo di grido che gira con il pacchetto di sigarette bene in vista nel camice, il vigile che parcheggia in doppia fila, i poliziotti che non indossano le cinture di sicurezza. Piccoli gesti di ordinaria trasgressione e di quotidiana sopravvivenza. La scuola è quello che è, e dunque anche un pezzettino di mondo. E sono davvero tante le circostanze in cui capita di sentire suonare la tromba della maleducazione, di vedere buchi praticati dal trapano della strafottenza e di sentire trilli di indifferenza. Ecco perché talvolta è bene rifugiarsi tra i ritagli di giornali. Almeno quelli non fanno rumore.

21 marzo 2007

don luigi ciotti e la sua idea di libertà


Mi sono mescolata tra loro, seduta a terra, assiepata contro i muri della sala gremita, ad ascoltare insieme, a tanti studenti della Provincia, Don Luigi Ciotti, sabato mattina qui a Caserta. Ho preso dieci pagine di appunti. Anche don Ciotti si è segnato le tante domande che gli hanno fatto: il bullismo, la città, la paura. Si occupa di mafia da anni, ma non ha mai smesso di guardare con apprensione al mondo giovanile. Racconta le storie che raccoglie da anni e ce ne consegna lo sgomento. Cosa pensare di quella ragazza morta a quindici anni in un incidente stradale che aveva pattuito con le sue amiche di essere sepolta insieme al suo telefonino. “Per noi adulti è incomprensibile. Per voi il telefonino è uno strumento di identità”.

“Dovete essere attenti, a queste cose. Molti genitori si comportano come se i figli dovessero educarsi da soli, altri invece ci chiedono di disintossicare i loro figli dal consumismo. Troppo, abbiamo bisogno di troppe cose, siamo dipendenti da tutto”.

E poi c’è la scuola. “Ragazzi!!! posso farvi un augurio che faccio prima di tutto a me stesso. Studiate tanto ma al contempo restate un poco analfabeti. Man mano che fate le cose siate analfabeti. Perché non fa bene pensare di sapere tutto, c’è il rischio di credere troppo in se stessi e di smettere di capire quello che ci circonda”.

“O c’è il rischio di entrare in una realtà virtuale e di non uscirne più. Come quel ragazzino, il figlio di un mio amico, che quando il papà l’ha portato allo stadio a vedere la partita dopo l’azione di Treseghè ha chiesto: ma quando ci fanno rivedere l’azione?” Come se tutto quello che accade si capisce solo vedendolo in televisione. Invece, continua don Ciotti, la mafia non è affatto virtuale. E’ reale. E ciascuno di noi deve prendere coscienza. “Dobbiamo essere capaci di guardare non solo vedere, di ascoltare e non solo sentire, di capire e non solo sapere”.

Anche io ho voglia di sapere cosa hanno capito stamattina i miei studenti. Quando ad esempio gli ha riferito la frase di un giornalista: “A che serve essere vivi se non si ha il coraggio di lottare?”.

Prima di Don Ciotti, alcune studentesse di Aversa hanno messo in scena alcune pagine del diario di Annalisa Durante. Le sue parole fragili, i sogni e il vestito bianco da sposa. Una vestizione lenta e intensa. Sino a sforare la commozione. Le guance della mia alunna arrossiscono e gli occhi le si riempiono di lacrime. A don Ciotti fanno paura soprattutto i vivi che sono morti dentro. Quelli che si rassegnano. che si rifugiano nell’immobilismo e nel tanto qui non cambierà niente. Molti di questi ragazzi stamattina si sono sentiti vivi. Non tutti, ma tanti. “Io sono cosciente dei mie limiti, dice don Ciotti. Ma un’idea chiara ce l’ho: lavorare insieme”. Per essere liberi. Dalla mafia, dal lavoro nero, dalla droga. Alla fine siamo usciti nel vento della mattinata di marzo, con le emozioni a fior di pelle e i pensieri scompigliati. Con l’eco di tante parole, alla ricerca di quella libertà di cui abbiamo sentito anche la responsabilità.

16 marzo 2007

gigi (d'alessio) e le scintille (lucenti)


Vedo una mia alunna sgattaiolare da un’aula all’altra con un libro in mano. Con la coda dell’occhio capisco che non si tratta della solita copertina azzurromoccia e dunque c’è un altro testo che circola da queste parti. La curiosità mi divora. “Che libro hai?” chiedo entrando in classe prima ancora di dire buongiorno. “Quello di Gigi D’Alessio”, mi risponde con gli occhi che sorridono. “Questo è il terzo, è bellissimo”. Come fa Gigi D’Alessio a fare i concerti, la casa, il nonno, il fidanzato, l’ospite televisivo e a trovare il tempo per scrivere i libri?
Impossibilitata a stagli al passo decido di trovare almeno il tempo per leggerlo. Per fortuna Come un film è un libro intervista, pieno di pagine bianche che non si capisce se sono messe lì per ragioni editoriali (arrivare al numero giusto di pagine) o come intermezzi musicali (anche il silenzio può far parte della partitura). Un viaggio dentro la gigidalessiostory, costruita come la più classica delle storie: il bambino piccolo e nero, (nero no, ma piccolo sì, tanto che lo chiamavano Topolino perché non riusciva a raggiungere lo sgabello del pianoforte) alla amicizia con Mario Merola, il difficile esordio e finalmente il successo. Arrivato, goduto, vissuto.
Come nelle favolette non mancano i cattivi, qui con il ghigno appena accennato degli strozzini e ancor più con il cipiglio severo della critica musicale e di tutti i denigratori che lo attaccano per il fatto di essere popolare e di spopolare tra le ragazzine. Lui si difende, racconta di quelli che poi si sono scusati con lui dicendo che non avevano capito niente, infila un po’ di complimenti acchiappati qua e là, racconta dei suoi infiniti riconoscimenti. Senza ovviamente essersi mai montato la testa.
A me non piace Gigi D’Alessio. Ogni tanto qualche studentessa mi fa sentire una canzone ma non riesco ad apprezzarlo. Ho letto questo libro, magari mi scattava un guizzo di simpatia. Niente. Purtroppo. Però ho fatto molta attenzione ai passaggi in cui questo libro si infarcisce di pedagogia. (E’ la tentazione di tutti, quella di insegnare, non si sfugge). Ad un certo punto l’intervistatore gli chiede di quella campagna a favore del casco di cui lui era testimonial. Gigi risponde più o meno così: se un politico dice mettetevi il casco nessuno lo fa, se lo dice un cantante sì.
Ah sì? E allora facciamogli dire più cose a questi cantanti. Perché hanno le parole giuste, il volto giusto, il tono giusto? Non lo so. Però per me va bene. Anche se gigionongigi di caschi per le strade se ne vedono ancora pochi. Come pure le volanti della polizia. Ecco gigi dovrebbe cantare anche per loro, per fargli fare i controlli e risolvere caschi, stragi del sabato sera, guida in stato di ebbrezza (ma questo è un altro discorso).
Torniamo al libro. C’è un passaggio che ho copiata sull’agenda. Lui deve spiegare se grandi si nasce o si diventa: “Si diventa. Con dedizione, passione e sacrificio. Anche il genio ha bisogno di tante cose: del vissuto, dell’esperienza, dei valori, dell’amore, delle passioni per nutrire la sua scintilla”. Ecco qua, questa è la ricetta di Gigi. Nutrire le scintille.
Nutrite le scintille! Nutrite le scintille!!! Perché se lo dico io ai miei alunni non funziona e e lo dice lui sì? A dire il vero, ho letto il testo mentre loro facevano compito: magari per la proprietà transitiva qualcosa accade, qualche scintilla lucente ci scappa.

11 marzo 2007

linguisticamente strepitoso!


Non gettare cadaveri dal finestrino. Ma anche: non siate banali, non restate fermi, immobilizzati, irretiti dal potere del linguaggio. Giocateci, con le parole, sentite il suono quando si sollevano in aria, il rumore quando cadono a terra, si rompono, rotolano e disegnano schegge di esistenza. Sentite il sapore, il retrogusto amaro di ogni esperienza. Annusatele queste parole, scoprirete l’odore acre di fumo, sono le stupidaggini dette per millenni che finalmente bruciano. E illuminano pagine e pagine del vocabolario. Scoprite la ricchezza dei lemmi, il piacere del calembour, del termine inusitato pescato nel mare magnum della lingua italiana. Non gettate cadaveri dal finestrino. Gettate via, piuttosto, tutte la banalità espressive che sino a oggi avete portato con voi, una inutile, ingombrante, zavorra.
Questo è molto altro viene in mente leggendo “Non gettate cadaveri dal finestrino”, raccolta di racconti di Gero Manelli, informatico che da scrittore si cimenta con i codici della lingua e il sistema binario della ironia e della follia (della realtà).
Cinque racconti che hanno come protagonista uno stralunato ispettore di polizia, Gaudino Liberovici che sembra aver sbagliato mestiere e pure vita. Come ispettore fa acqua da tutte le parti: sbaglia il piano dove si svolge la scena del delitto, sbaglia la strada dove deve recarsi, sbaglia l’analisi degli indizi. Oppure è la vita ad essere sbagliata. E lui si barcamena come può. Il lettore lo segue recalcitrante nelle sue avventure: vorrebbe intervenire, aggiustare il tiro, comporre facilmente dei rompicapo che ai suoi occhi sono assurdi. Ma è un’impresa destinata al fallimento. Che senso hanno gli omicidi? Si uccide, sempre e comunque, per un nonnulla. Si buttano, appunto, cadaveri dal finestrino quasi fossero pacchetti vuoti di sigarette.
Invece no. Siamo noi che buttiamo via tanto tempo in richieste, recriminazioni, ritorsioni, torsioni. Sarà per questo che Gaudino sbaglia strada. Sono le strade ad essere impossibili, impraticabili, inaccessibili. E con la sua assoluta follia linguistica, l’ispettore ci strattona nel mondo del non senso. Agli avamposti dell’insignificanza, prova a dare un senso.
Come il suo personaggio, così l’autore è impegnato a seguire il filo del racconto. Cosa raccontare? Perché? Un’indagine altrettanto complessa la sua: Gero cuce e ricuce parole e paroloni, costruisce interessanti anacoluti e sintassi aggraziate, frantumando la tenuta narrativa dei racconti . Tocca al lettore, avventurarsi nel tourbillon linguistico e ricomporre la trama delle storie. Ovviamente, dopo aver gettato qualcosa dal finestrino.

08 marzo 2007

di due mazzi di mimose dimenticati sul mobile


Ha spinto il tavolo sotto il muro, ha messo una sedia sopra e ci è salita. O meglio, ha tentato si salire, di arrampicarsi, e la sedia è caduta. Quando mia zia è arrivata l’ha trovata trafelata, ma ancora ci stava riprovando. Con la pila stretta in mano. Impaurita e determinata.
Mia zia ha urlato dallo spavento e lei ha gridato di rimando. Immaginavo la scena che mi era stata raccontata a telefono. Ci ripensavo ogni tanto, anche mentre ero in classe e spiegavo. Sorridevo dentro di me. Mia nonna è sempre stata un po’ pazzariella. Certo, a 89 anni, costruire una montagnola di mobili in cucina, e solo per cambiare la pila all’orologio… devo riconoscere che ha un po’ esagerato. Però anche loro, le figlie, hanno montato un caso su questa storia. Nel corso della mattinata ho approfittato di ogni cambio d’ora per sapere come stava procedendo la mega riunione familiare, che vedeva tutti i parenti coinvolti, vicini e lontani. Come si può fare? Cosa si può fare per farle capire che certe cose non le deve fare?
“Ma io non ci arrivavo”, protestava lei. Infatti. La vecchiaia l’ha resa sempre più piccolina. Adesso sarà alta un metro e venti, un metro e trenta. Una sorta di silenziosa erosione ossea, che però non ha scalfito affatto il suo carattere, la sua forza incredibile nel volere e nel fare le cose.
Tra l’altro in cucina c’è comunque l’altro orologio che funziona. Quello rotondo con la gallina e i pulcini che si abbassano allo scorrere dei secondi. Me lo ricordo praticamente da sempre, su quel mobile. Però l’altro, quello a parete fa più rumore, e sono convinta che lei volesse sentire il ticchettio più che guardare l’ora. Il tempo è la compagnia dei vecchi. Non importa dove va, il tempo. Importa che ci sia. Non importa solo riempirlo, importa che lui riempia te.
Capisco che si siano tutti arrabbiati. E’ stata davvero spericolata, ma non più di altre volte. Anche se che ha collezionato più di un capitombolo da questa estate ad ora. Ruzzoloni per le scale, piccole cadute, qualche storta. Oramai è uno scoiattolo. Cade e si rialza. Dopo un po’ ci fa vedere le croste. Quando tutto è finito. A me piace così. Mi sembra sempre e comunque piena di vita.
Mia zia le ha lasciato le mimose sulla credenza. Non ha avuto più voglia di dargliele. Si è troppo arrabbiata. A me può piacere. Ma poi di fatto è lei che le sta vicino. E deve prendersi cura, portarla al medico, procurarle le stampelle, i trabiccoli con cui si aiuta a camminare. Ha ragione. Alla fine anche io, tra una telefonata e l’altra, tra le decine di sms dell’8 marzo, ho dimenticato di sistemare i fiori nel vaso. Però mi è sembrato così bello, così significativo quel gesto di mia nonna. Mio figlio rileggeva il dettato della maestra: nell’800 le donne incominciarono a ribelarsi... “Due b e due l, a mamma”. La ribellione non è mica solo quella custodita nei libri di storia, pensavo. La ribellione è quella di tutti i giorni. “E conquistarono la libertà. ancora oggi però in molte parti del mondo ci sono donne oprese”. “Due p e due s, correggi…”. Quando imparerà le doppie? Mi chiedo con leggera apprensione. Voglio sperare prima di quando noi impareremo a pensare che queste parti del mondo non sono poi così lontane. Che le donne di cui parla il dettatino del bambino vivono accanto a noi, nei cortili dove danno i cibi ai gatti, nelle scuole quando le frequentano di malavoglia, nelle strade dove hanno paura di camminare da sole, nelle case dove dimenticano quanto è bello e importante poter essere ascoltate. E quello che resta è almeno sentire il tempo. E metterci dentro tutto quello che hanno dentro.

05 marzo 2007

in bicicletta, durante la giornata della lentezza

Testo argomentativo. Scegli un tema, affronta una questione, prendi un argomento, appunto, e impara a guardarlo da tanti punti di vista. Il programma ogni tanto inciampa su queste richieste ministeriali dalle quali non è possibile sgattaiolare. E’ giusto in fondo, prendere un oggetto e analizzarlo bene, scoprirne gli aspetti, guardare bene tutto, ma proprio tutto. E raccontarlo. Mica facile però. Con la giornata della lentezza ho deciso di prendermela comoda. In giro per l’Italia hanno fatto le feste con ballando i lenti guancia a guancia, hanno multato gli indaffarati con degli autovelox per pedoni, hanno mandato un po’ di asini a trotto per le strade. Me le hanno raccontate le mie alunne queste cose. Dopo un po’ di giretti su internet che avevano avuto come compito a casa. Ma si può fare qui, al sud, nel flemmatico sud, una riflessione sulla lentezza? Allora prima di scomporre le facce della questione, proviamo a dialettizzare. Per ogni banco, una scrive della lentezza, l’altra della velocità. Vediamo cosa succede.
Seguendo i gusti personali, ma anche la necessaria alternanza tra i banchi. A me è toccata la velocità. E visto che sono la prof, mi sono riservata il piacere di scrivere anche per divertire. Ecco la mia arringa. “Velocità. Sempre, comunque. Perché velocità fa rima con felicità e libertà. C’è un momento per me, la mattina, che è davvero il più bello della giornata. Sto andando a scuola, imbocco la discesa, la bici prende velocità e nel punto massimo della corsa mi sollevo in piedi, sento il vento sulla faccia, sulle braccia, sui pantaloni. Sento l’ebbrezza della velocità che si porta via tutto: pensieri, paure, apprensioni. Una pericolosa felicità, la velocità.
Insieme alla libertà. Prova a prendermi. Si corre, si fugge, si scappa. Si va lontano da quello che non ci piace. Chi non ha sognato di avere grandi ali di uccello per andare lontano?
E poi c’è la velocità della mente. Senza la quale neanche i più lenti pachidermi riuscirebbero a sopravvivere. Insight la chiamano gli scienziati cognitivi, la capacità del cervello umano di saper selezionare e scegliere immediatamente tra migliaia di informazioni. Capire ciò che ci piace e cosa no, scegliere il colore giusto, la frase giusta, la persona giusta. Insigth ovvero la prima impressione. E quella conta. Un misto di intuizione ed esperienza che si brucia in pochissimo tempo e resterà dentro di noi per sempre. Anche se poi cambieremo idea.
Infine, l’aspetto più interessante della velocità è il suo inscindibile legame con l’amore. Cupido è un ragazzetto sveglio che scorazza nel cielo e la sua freccia è più veloce di lui. Quando la scaglia non c’è verso di rallentare la corsa, di parare il colpo. Lui è già da un’altra parte. A lanciare frecce. L’amore è un dardo. In genere colpisce nel giusto, Cupido. (Qualche volta fa danni). La sua specialità sono i colpi di fulmini. Cosa c’è di più veloce, rapido e preciso di un colpo di fulmine?”
Sette più, mi hanno dato i miei alunni. Ho accettato senza argomentare, perché i loro testi sono stati decisamente più belli.


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